James Mattis, al centro, tra il presidente eletto Donald Trump e il futuro vicepresidente Mike Pence (foto LaPresse)

Il mirino sull'Iran di Mattis, nuovo capo del Pentagono

Daniele Raineri

Il generale dei marine James Mattis arriva all’incarico di segretario americano alla Difesa circondato da una fama telegenica di duro. Fu cacciato dall'Amministrazione Obama a causa di Teheran. 

Il generale dei marine James Mattis arriva all’incarico di segretario americano alla Difesa circondato da una fama telegenica di duro (“Dicono che sia la cosa più vicina al generale George Patton che abbiamo”, ha detto il presidente eletto Donald Trump a una folla festante in Ohio), e questa fama passa anche per alcune citazioni à la Chuck Norris prese dai suoi discorsi ai soldati, per il soprannome “Cane pazzo” e per il nome in codice usato alla radio durante le operazioni: “Chaos”. Mattis è tuttavia un erudito, che nei circoli del Pentagono è conosciuto per il pensiero strategico, per le letture onnivore – poesia e storia iraniana incluse – e perché ama circondarsi di altri militari con il cervello (l’ammiraglio che si scelse come vice al Comando centrale era Bob Harward, un Navy Seal che si rivolgeva fluentemente in lingua Farsi ai professori durante le conferenze sull’Iran). Anche quel nome in codice radio, Caos, in realtà è dovuto alla lettura di Sun Tzu e della sua arte della guerra più che all’irruenza e si riferisce alla necessità di seminare il caos tra i nemici dell’America. Mattis è stato generale dei marine durante la guerra in Iraq, laggiù ha visto come l’appoggio dato dall’Iran alle milizie sciite locali ha causato la morte di centinaia di soldati americani e si è convinto che Teheran è la singola minaccia più duratura alla pace e alla stabilità del medio oriente. Quando Mattis nel 2010 divenne comandante del Centcom, il settore del Pentagono che si occupa del quadrante di mondo che va dall’Egitto all’Afghanistan, un suo ufficiale disse che i paesi in cima alla lista delle priorità del comando erano tre: “L’Iran, l’Iran e l’Iran”. Proprio questa fissazione fu la causa della rottura tra Mattis e l’Amministrazione Obama.

Vale la pena ripercorrere le ragioni di quello scontro tra Mattis e Obama perché è probabile che si parlerà di nuovo di questo tema, questa volta però all’interno dell’Amministrazione Trump e con Mattis – che non teme di sostenere le sue ragioni in modo diretto – in un ruolo più alto e più vicino al presidente. I problemi tra America e Iran appartengono a due campi: il primo è quello del programma nucleare, più o meno congelato per i prossimi dieci anni grazie al deal firmato nel luglio 2015 (viene anche chiamato con un acronimo complicato, Jcpoa); il secondo è quello di tutte le attività iraniane che non c’entrano con il nucleare ma preoccupano lo stesso l’America. L’ex generale dei marine ne ha elencate quattro in un discorso che ha tenuto ad aprile al Center for Strategic and International Studies ripreso dal sito americano Vox: il fatto che l’Iran sta sviluppando missili balistici che possono raggiungere Israele e l’Europa; le minacce di chiudere rotte vitali della navigazione marittima mondiale come lo Stretto di Hormuz; la capacità crescente di effettuare attacchi via computer; l’appoggio a tutta una serie di milizie irregolari ma bene armate e addestrate che combattono in Siria, Iraq, Libano e Yemen e fanno gli interessi di Teheran (l’esempio più facile: Hezbollah). Mattis sostiene che il deal è importante e che capisce le ragioni dell’Amministrazione Obama per firmarlo, ma che non intervenire su tutto il resto è stato un errore. Quando sollevò questo argomento durante un incontro con Tom Donilon, consigliere alla Difesa nazionale di Obama, che invece prediligeva, come tutta l’Amministrazione, un approccio cautissimo per non rovinare il deal nucleare – considerato il gioiello della corona della politica estera obamiana – fu l’inizio della fine anticipata del suo comando al Centcom. Questa distinzione di Mattis comincia già a contare: ieri il Financial Times ha rivelato che il team di transizione di Trump sta discutendo nuove sanzioni contro l’Iran non legate al deal nucleare, ma ad altri dossier, come il programma per i missili balistici e le violazioni dei diritti umani. La nomina di Mattis – che deve ancora passare per un procedimento di conferma più laborioso del solito – è considerata anche come un contrappeso alla nomina del generale Mike Flynn a consigliere per la Sicurezza nazionale. In campagna elettorale Flynn si è esposto con dichiarazioni “trumpiane” su islam e Russia e “Cane pazzo” – che vanta una stella in più – è visto come una voce competente capace di farsi valere nell’esecutivo. 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)