Steven Mnuchin

Perché il finanziere Mnuchin sta facendo impazzire Wall Street

Paola Peduzzi

Altri dettagli dal cv del segretario al Tesoro designato da Trump. Dems all’attacco: è il “Forrest Gump della finanza”. E lui lancia l’idea di una riforma delle tasse à la Reagan

Milano. Il curriculum del segretario al Tesoro designato, Steve Mnuchin, rispecchia la storia della finanza americana – e dei suoi fallimenti – degli anni Duemila. All’origine c’è la “terribile” Goldman Sachs che aveva dato redditi e onori straordinari ai collaboratori di Bill Clinton (il padre di Mnuchin ci ha passato la vita, lui ci è arrivato alla fine degli anni 80 e se n’è andato nel 2002, dopo essere stato a capo del famigerato dipartimento Mutui), c’è la crisi dei mutui del 2008, con banche e istituzioni finanziarie fallite, rilevate, pignorate e clienti mandati sul lastrico (tramite la società di mutui IndyMac), c’è una compagnia nata grazie alla generosità di George Soros, sostenitore dei democratici e nemico del presidente eletto Donald Trump. Ci sono anche il mondo dell’arte e Hollywood ma questi elementi al momento non sembrano rilevanti, non ancora almeno, se non perché contribuiscono a formare un profilo di lusso ed establishment che non potrebbe essere più lontano dalla cosiddetta “pancia” degli elettori trumpiani. Mnuchin (si pronuncia m-nu-cin) è finito fin da subito nel mirino dei mastini democratici anti Wall Street, Bernie Sanders ed Elisabeth Warren armati in coro – è forse la prima volta, ha sottolineato Politico –, con la senatrice del Massachusetts svelta e abile a definirlo il “Forrest Gump della finanza”, con promessa di battaglia all’ultimo sangue al Congresso. Una bocciatura della nomina pare più che improbabile, visto che i repubblicani hanno la maggioranza al Senato, ma le accuse sono feroci, e soprattutto lo è l’insistenza con cui si sottolinea che gli elettori di Trump dovrebbero essere i primi a non voler digerire un tipo come Mnuchin.

 

 

Ci sono due analisi importanti sulla nomina di Mnuchin. Una riguarda il suo approccio reaganiano alla fiscalità con una promessa di abbassamento delle tasse di austera memoria che colloca il trumpismo, o meglio questi primi accenni di Trumpnomics, nella tradizione conservatrice liberale degli anni Ottanta. Nel laborioso tentativo di decifrare il fenomeno Trump si è spesso parlato di un suo ritorno al passato, in particolare alla destra tradizionale degli anni Sessanta, ma la scelta di Mnuchin sposta un pochino più in là l’orizzonte, e in quel pochino c’è l’enormità della svolta reaganiana. Nella sua prima intervista da ministro designato, Mnuchin ha detto di voler attuare la più grande riforma delle tasse da Reagan a oggi, e ha fatto riferimento alle tasse federali per la classe media e per le imprese, dicendo che invece i privilegi fiscali già esistenti per le fasce più ricche saranno ridimensionati con una riduzione delle deduzioni. Molti analisti dicono che le promesse e gli annunci – tantissimi – che caratterizzano la fase di transizione da una presidenza all’altra non sono destinati a trasformarsi in realtà, considerato anche lo stato dei conti degli Stati Uniti, ma al momento l’analisi del trumpismo è ferma a un passo prima: si cerca ancora di comprendere che forma avrà l’attesa normalizzazione del prossimo presidente. E così, se in uno dei dicasteri più importanti dell’Amministrazione arriva un Mnuchin, la definizione ideologica del trumpismo si assesta nell’area liberale addentellata con Wall Street.

 

Ma non era proprio questo il mondo che Trump e i suoi elettori hanno combattuto? Non è proprio l’opposizione a questo modello che ha portato Trump alla Casa Bianca? Queste domande ricorrono in ogni talk show, e i democratici hanno già intercettato l’anomalia – ancora più paradossale visto che Mnuchin potrebbe essere tranquillamente un segretario al Tesoro di un’Amministrazione democratica – per attaccare Trump e nel frattempo iniziare a ridefinire la propria identità, che se già pendeva verso una retorica anti Wall Street e anti establishment, ora ha una ragione in più, fortissima, per sistemarsi in quell’angolo ideologico (che è anche protezionista, come piace sia a Trump sia ai suoi elettori). I giornali si sono riempiti di articoli in cui si parla dell’élite di Wall Street al governo, dell’Amministrazione formata da ricconi (con la tendenza se non alla frode, alla finanza spericolata), oltre che del gran ritorno di Goldman Sachs (anche il tenebroso Steve Bannon viene da lì), ma intanto i più attenti aspettano che Trump inizi la sua opera di sintesi in un’Amministrazione che per ora pare, almeno ideologicamente, ancora informe. E’ a quel punto che anche la normalizzazione avrà un suo aggettivo preciso.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi