Donald Trump (foto LaPresse)

Trump e la strategia della confusione

Con il fratricidio organizzato e la rivoluzione permanente all’interno della sua squadra, The Donald ha vinto le elezioni. “You’re fired!” sta diventando la leva della distruzione creatrice della politica trumpiana.

New York. In poco più di una settimana il transition team di Donald Trump ha visto un cambio al vertice, un intero clan epurato, un consigliere accusato di razzismo, un genero che gestisce le esecuzioni politiche, ha visto faide e litigi, tradimenti e vendette. I lobbisti sono stati portati dentro e poi cacciati fuori, i leader stranieri hanno faticato a trovare il numero di telefono giusto per congratularsi con il presidente eletto, alcuni hanno dovuto addirittura chiamare il centralino della Trump Tower chiedendo di essere reindirizzati all’interno giusto, il dipartimento di stato e il Pentagon ancora aspettano una telefonata per iniziare le procedure della transizione.

 

 

Un complottista con un passato nell’amministrazione Reagan è stato chiamato per dare consigli di politica estera, ma poi ha smentito tutto: “Non mi hanno mai contattato”. Un serissimo esperto con un passato nell’amministrazione Bush è stato invece contattato per davvero, ma dopo pochi scambi ha capito che era meglio stare alla larga, e pubblicamente ha invitato i colleghi desiderosi di servire il paese a non cedere alle lusinghe, se contattati.

Di fronte allo spettacolo rovinoso della disorganizzazione, Trump twitta che la transizione sta andando “so smoothly”, così liscia che nemmeno ci si può credere. Sta andando in scena una “procedura molto ben organizzata per decidere la squadra di governo e molte altre posizioni”, ha scritto, aggiungendo nel medesimo cinguettio una conclusione che smentisce la premessa: “Solo io so chi sono i finalisti”.

Si potrebbe ridere delle storie di una transizione “smooth” mentre alla Trump Tower si assaltano brandendo scimitarre d’oro, ma questa confusione ormai è chiaramente una strategia.

Con il fratricidio organizzato e la rivoluzione permanente all’interno della sua squadra, Trump ci ha vinto le elezioni, sfidando sondaggi e convenzioni politiche. Il suo modus operandi prevede la divisione dei ranghi in fazioni che si azzannano fra loro senza pietà, e quando una prevale sull’altra entra in scena un nuovo nemico che la assalta alla giugulare, in un perverso incrocio fra Hunger Games e The Apprentice a sfondo politico.

L’iconica sentenza trumpiana “you’re fired!” probabilmente non è un principio di governo, ma la cacciata è la leva della distruzione creatrice con cui il candidato ha rovesciato le consuetudini apparentemente eterne della politica americana. La transizione per il momento è disordinata e nebulosa, ma dopo l’elezione l’onere della prova è passato dalla parte dei suoi critici: prima era Trump a dover dimostrare che la strategia della confusione porta risultati, ora sono gli avversari a dover provare il contrario. Lui sta soltanto ripetendo la ricetta che lo ha portato alla Casa Bianca.

Quando, qualche giorno fa, è scoppiata la polemica sul superconsigliere Steve Bannon, il Wall Street Journal, che non è certo una fanzine della alt-right, ha osservato: “Una lezione del 2016 è che considerare gli americani che non sono d’accordo con te dei fanatici è una strategia perdente”. C’è del metodo anche nella transizione confusa e litigiosa dell’Amministrazione Trump, fino a prova contraria

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