Donald Trump (foto LaPresse)

Trump e i generali

Daniele Raineri

Al Pentagono tutti si dicono “pronti” ma notano di non essere ancora stati contattati (e Putin sì)

Roma. Da giovedì scorso gli ufficiali del Pentagono aspettano di prendere contatto con il team per la transizione verso l’Amministrazione Trump, ma non è ancora successo e i giornali americani interpretano il ritardo inusuale come un altro segno delle difficoltà all’interno della squadra trumpiana. Il segretario alla Difesa, Ash Carter, affetta nonchalance: “Non so quando arriveranno, sta a loro decidere. Arriveranno quando saranno pronti. E noi saremo pronti quando arriveranno”, e un portavoce del Pentagono, Jeff Davis, sfoggia precisione marziale: “Siamo pronti in attesa di assistere il team del presidente eletto per una transizione liscia e ordinata nell’interesse della sicurezza nazionale e del nostro paese”.

 

 

 

La faccenda è tuttavia complicata da almeno due fattori. Il primo è che il team di transizione attraversa una fase di burrasca: il capo Chris Christie è stato cacciato venerdì scorso e l’uomo che si occupava della Sicurezza nazionale, Mike Rogers, si è dimesso due giorni fa. Il secondo è che in campagna elettorale c’è stato malanimo tra l’establishment della Difesa e Trump. Lunedì, per esempio, Carter è tornato a difendere l’operazione per cacciare lo Stato islamico da Mosul in Iraq e da Raqqa in Siria, che il presidente eletto ha criticato perché “è un disastro”, “non si annunciano queste operazioni con mesi di anticipo, se ci fossi stato io avrei agito di sorpresa”. Carter ha fatto notare con i giornalisti che è ovvio che Mosul e Raqqa, le due capitali di fatto del gruppo estremista, sarebbero state attaccate e liberate, e che comunque l’annuncio plateale dell’intenzione di sconfiggere lo Stato islamico dato con molto anticipo è il pezzo centrale della strategia della Coalizione per combattere il messaggio della propaganda islamista.

Carter non si aspetta di avere un ruolo nella prossima Amministrazione, come molti altri funzionari di alto livello della Difesa che secondo il sito Daily Beast stanno lasciando gli incarichi perché ora vedono l’esperienza accumulata negli anni recenti – per esempio sotto il doppio mandato di Barack Obama – come un problema di curriculum davanti al nuovo staff della Casa Bianca. Il Daily Beast scrive però che moltissimi altri, con poca esperienza, hanno capito la situazione e stanno mandando curriculum nella speranza di andare a Washington e partecipare a un cambio della guardia più rivoluzionario del solito.

Da mesi si ipotizza una possibile fase di gelo totale tra il presidente eletto Trump e i generali americani, da lui trattati con parole molto ingenerose durante la campagna elettorale. “Obama li ha ridotti a spazzatura – ha detto – li ha ridotti in un modo che è imbarazzante per il paese”. Questo commento, unito ad altri come quello contro “il disastro dell’operazione a Mosul”, oppure contro il senatore McCain che “non è un eroe di guerra perché si è fatto catturare” e la polemica contro la famiglia del capitano Khan, che si fece uccidere per proteggere i compagni da un attacco terroristico in Iraq nel 2004, rendono ora la questione delle relazioni tra Pentagono e la Casa Bianca molto interessanti – posto che i militari obbediscono e non discutono gli ordini della leadership civile. In generale, l’establishment militare da anni è a favore di un ruolo più muscolare dell’America in Iraq e in Siria e diffida, per un imprinting difficile da sradicare, dell’intesa già data per certa di Trump con la Russia di Vladimir Putin (Trump ha parlato prima con Putin che con il Pentagono, fanno notare i critici).

In campagna elettorale il presidente eletto aveva annunciato la volontà di espandere l’esercito da 475 mila a 540 uomini e il corpo dei marine da 24 a 36 battaglioni, e inoltre di “avere una Marina militare da 350 navi e un’aviazione con 1.200 jet da combattimento”. Questo corrisponde a un aumento delle spese del 2017 per il settore militare – secondo le stime di alcuni esperti – del venti per cento, da 583 miliardi di dollari a settecento, il che probabilmente piacerebbe ai generali ma violerebbe i limiti di spesa imposti dal Congresso nel 2011 e in vigore fino al 2021. Trump ha promesso di alzare il tetto del budget e controlla il Congresso, ma non è detto che tutti i repubblicani siano d’accordo con l’aumento del budget federale. Tanto più che si è proclamato nemico assoluto della dottrina del nation building, vale a dire dell’impiego dei militari per la stabilizzazione di un paese in guerra e non soltanto per combattere, e allora non si vede perché arruolare tanti soldati in più.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)