Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (foto LaPresse)

Come Trump potrà aiutare Israele. Parlano gli analisti Inbar e Halevi

Giulio Meotti
Ci sono molte cose che accomunano Bibi e Donald: i soldi, il fatto di aver costruito il proprio carisma politico contro l’establishment, la retorica contro l’Onu e l’avversione al deal nucleare con l’Iran.

Roma. “Benjamin Netanyahu ha avuto momenti di grande tensione con il presidente uscente Barack Obama, e Hillary Clinton ne sarebbe stata la continuazione”. Così al Foglio Efraim Inbar, direttore del Besa Center e consigliere molto ascoltato dal premier israeliano, riassume il sentimento oggi prevalente nell’inner circle di Netanyahu. Dice Efraim Inbar: “L’elezione di Donald Trump è una buona notizia per Gerusalemme, ma staremo a vedere. L’Amministrazione Trump non è ancora prevedibile, ma sembra che i nostri alleati saranno più forti nel difendere il mondo libero. La posizione iniziale di Trump è molto diversa da Obama su Gerusalemme, l’Iran e le colonie. In Israele non chiediamo soldati americani, ma di capire la nostra posizione, mentre Obama ha proiettato debolezza in tutta la regione. Egiziani, israeliani, sauditi, per ora sono tutti sollevati da Trump”.

 

Ci sono molte cose che accomunano Bibi e Donald. La prima non sono i tre matrimoni, la faccia di bronzo o la psicoanalizzazione subita dai media. Sono i soldi. Sheldon Adelson, magnate di Las Vegas e tredicesimo uomo più ricco d’America, due settimane fa ha donato venticinque milioni di dollari alla campagna di Trump. Adelson è anche il principale finanziatore di Netanyahu. Non solo. Adelson è il proprietario dell’unico giornale che aveva endorsato Trump, il Las Vegas Review-Journal, ma anche di Israel Hayom, il primo quotidiano israeliano e vicinissimo a Netanyahu. Non solo. Come Trump, Netanyahu ha costruito il suo carisma politico contro l’establishment: i giornali, le tv, gli ambasciatori, i generali in pensione, gli scrittori. Se Netanyahu trova il suo bacino di voti nelle città periferiche di Israele e a Gerusalemme, Trump nella Rust Belt, mentre ai Democratici di Hillary Clinton sono andate tutte le città, così come il Labour israeliano è fortissimo a Tel Aviv. Ci sono già alcuni dossier su cui i due convergono.

 

Come ha ricordato ieri al Washington Post David Makovsky del Washington Institute for Near East Policy, “per la prima volta Netanyahu avrà a che fare con un presidente repubblicano”. Trump ieri ha invitato Bibi alla Casa Bianca, definendo (proprio su Israel Hayom) Israele “un raggio di speranza”. “Trump è un vero amico d’Israele”, ha dichiarato Netanyahu. All’Aipac, la più grande organizzazione americana a sostegno d’Israele, Trump ha promesso di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola come capitale (promessa difficile però da mantenere). “Trump continuerà a rinforzare la nostra città”, ha detto ieri il sindaco di Gerusalemme Nir Barkat. A maggio, Trump ha detto che gli insediamenti ebraici non sono il cuore del conflitto e anzi di essere a favore della loro costruzione, visto che i palestinesi “continuano a sparare missili contro lo stato ebraico”. Si capisce perché in queste ore il ministro israeliano dell’Educazione, Naftali Bennett, leader della destra alleata di Netanyahu, ha definito l’elezione di Trump “la fine dell’èra dello stato palestinese”.

 

Trump e Netanyahu sono accomunati dalla retorica contro l’Onu, che Trump ha definito “nemica della democrazia, della libertà, degli Stati Uniti e di Israele”. Comune è l’avversione al deal nucleare con l’Iran. La preoccupazione maggiore a Gerusalemme su Trump riguarda gli aiuti militari: non ha fatto mistero di essere contrario. I due consiglieri di Trump su Israele sono Jason Greenblatt e David Friedman, avvocati, ebrei ortodossi che furono amici di Ronald Reagan e falchi favorevoli alle colonie. Poi c’è Walid Phares, cristiano maronita pro Israele. E tutti e tre i contendenti per diventare segretario di stato con Trump – John Bolton, Newt Gingrich e Bob Corker – hanno una posizione oltranzista pro Israele. 

 

Ma in che modo, al di là della retorica, Trump può fare la differenza per Israele? Lo chiediamo a Yossi Klein Halevi, intellettuale israelo-americano di estrazione liberal, critico di Trump e collaboratore di testate fra cui il New York Times: “Le due aree più rilevanti per Israele oggi sono l’accordo sull’Iran e le relazioni con il mondo arabo”, dice Yossi Klein Halevi al Foglio. “Nessuno si aspetta che Trump stralci l’accordo con l’Iran, ma che metta pressione all’Iran nel rispettarlo, insistendo per evitare che destabilizzi la regione. Trump significa più sanzioni sull’Iran e la fine della fantasia obamiana per cui il regime iraniano è un partner, anziché una minaccia per la regione. Trump porterà a questa rivoluzione concettuale sull’Iran”. Poi c’è il fronte palestinese: “Per la prima volta c’è una vera opportunità per Israele di trovare il suo posto nel mondo arabo, perché abbiamo un nemico comune, l’Iran, che porta Israele e sauditi sullo stesso fronte. I media sauditi, che erano i più antisemiti al mondo, stanno preparando il popolo al cambiamento nelle relazioni con Israele. Obama pensava che Israele dovesse fare la pace con i palestinesi per fare la pace con il mondo arabo. Idea non solo fuori moda, ma pericolosa. Per fare la pace con i palestinesi Israele deve prima trovare un accordo con il mondo arabo. Se Trump comprende questo, la sua Amministrazione può davvero essere un cambiamento per Israele, portando i palestinesi a essere partner per la pace. Con Trump saranno i palestinesi, non Israele, a essere sotto pressione. Trump è un rude pragmatico e il presidente americano meno ideologico della storia. E ciò aiuterà Israele”. 

 

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.