Donald Trump (foto LaPresse)

Il nuovo bipolarismo dopo Trump

Claudio Cerasa
La salute del sistema democratico, la genesi delle leadership, le coordinate del bipartitismo, le lezioni per l’Italia e lo smarrimento della sinistra. Risposte possibili per orientarsi nel mondo della post verità.

Quattro giorni dopo lo straordinario stordimento mondiale generato dalla vittoria di Donald Trump ci sono molte domande che rimangono ancora senza risposta ma sulle quali vale la pena provare a ragionare per capire senza retorica cosa ci dice il grande romanzo americano rispetto ad alcuni temi oggi diventati ineludibili. Per non fare troppa confusione abbiamo provato a selezionarne cinque, che coincidono appunto con altrettante domande. Cosa ci dice la vittoria di Trump (a) sulla salute delle democrazie mondiali, (b) sulla genesi di una leadership, (c) sulle nuove coordinate del bipolarismo, (d) sulla condizione della cultura progressista uscita devastata dal voto americano, (e) sulle possibili lezioni che la politica italiana dovrebbe cogliere per evitare di sottostimare la portata di un passaggio contraddittorio ma epocale che non può essere liquidato con la semplice storia della vittoria di un “populismo”?

 

Sul primo punto, la salute delle democrazie, il tema non è capire se le democrazie funzionano oppure no o se il sistema rappresentativo dà spazio con frequenza eccessiva a istanze politiche in cui l’establishment di un paese fatica a riconoscersi. Il punto centrale è un concetto che su questo giornale abbiamo sviscerato a lungo durante la campagna elettorale e riguarda quel mix pericoloso che si è generato tra democrazie liberali e politicamente corretto. Il filosofo polacco Ryszard Legutko, in un bel saggio pubblicato qualche mese fa in America con una casa editrice (Encounter Books) che da anni accusa il New York Times di essere un giornale distrutto dal bias liberale, lo ha definito “il demone della democrazia” e il concetto è semplice: quando in una democrazia liberale si impone la dittatura del politicamente corretto, e quando cioè i pensieri anti mainstream vengono considerati e trattati come se fossero delle indicibili eresie, succede che la libertà di espressione viene spazzata via dal regime dell’egualitarismo (la diffidenza per l’islam diventa islamofobia, la paura dell’immigrazione diventa xenofobia, le critiche ai gay diventano omofobia, e non si ha più nemmeno il coraggio di scrivere uomo o donna sopra la porta di un bagno) e succede che in un paese tende a maturare in più strati sociali una frustrazione che non può che generare l’esplosione di un preciso sistema politico. Non è questa la causa unica della vittoria di Trump ma nella storia recente americana è un fatto che la grammatica della condivisione ha preso il posto della grammatica della conversazione e l’esplosione del politicamente corretto non poteva che mettere a nudo il vero demone della democrazia e portare così al massimo estremo e cafone della scorrettezza politica. Questo naturalmente non significa, come potrebbe credere qualcuno, che la democrazia sia guasta. Anzi, se c’è una lezione che possiamo cogliere dalle elezioni americane è che la democrazia gira bene laddove esiste (a) un sistema di selezione della classe dirigente che funziona e premia chi ha più voti degli avversari (Dio benedica le primarie) e (b) un sistema bipolare che garantisce l’alternanza tra le forze politiche al governo e che aiuta a gestire i fenomeni estremi costringendo coloro che sono portatori di istanze populiste a tracciare una linea netta tra ciò che rappresenta la sfera della campagna elettorale e ciò che rappresenta la sfera della campagna di governo. Se c’è una lezione per l’Italia, dunque, la lezione è questa: non bisogna avere paura di chi rappresenta meglio degli altri il popolo, bisogna avere paura di un sistema autodistruttivo in cui il bipolarismo viene strozzato, in cui si preferisce il governo degli ottimati al governo degli eletti e in cui si alimenta e non si combatte il vero virus della democrazia.

 


Matteo Renzi e Angela Merkel (foto LaPresse)


 

Un conto è una forza populista che si fa strada fuori dai tradizionali confini della politica (modello europeo, Gran Bretagna a parte), un conto è una forza populista che si fa strada all’interno dei tradizionali confini della politica (e che così può potenzialmente anche essere riequilibrata). Ieri lo ha ricordato bene sul Wall Street Journal Joseph Sternberg: tra il sistema americano e il sistema europeo, eccezion fatta per la Gran Bretagna, c’è una differenza strutturale tra chi riesce a canalizzare le forze dissidenti all’interno delle forze mainstream e chi invece non ha sistemi istituzionali capaci di semplificare la rappresentanza. E qui arriviamo al terzo punto da analizzare: la genesi di una leadership, alla luce della sfida tra Clinton e Trump. Senza voler fare grandi e inutili pippe politologiche, la questione ci pare evidente: nell’èra moderna, può piacere o no, ma esistono elementi imprescindibili che caratterizzano una leadership al passo con i tempi e al passo con i desiderata degli elettori. Non c’è leader che possa intercettare la maggioranza di un paese senza costruire attorno a sé l’immagine di un leader che rappresenti (a) un cambiamento, (b) una discontinuità, (c) una distanza dall’establishment. Non importa in che modo ci riesca, e non importa che racconti una verità. E’ sufficiente anche che il leader metta in campo un linguaggio verosimile, ovvero anche non vero e raccontando un mucchio di bugie come ha fatto Trump. E non importa che il leader sia giovane o vecchio, Trump ha 70 anni. E non importa neppure se la verità che racconta è una verità che risulta tale sulla base non dei fatti (post truth politics) ma sulla base di ciò che funziona e diventa virale (“nel nuovo mondo non è vero ciò che è vero ma è vero ciò che è virale”, ha scritto giustamente Giuliano da Empoli). Ma senza tutti e tre gli elementi (noi naturalmente preferiamo le leadership che raccontano la verità, non quelle che si basano su verità virali) non si ha quella che oggi è una caratteristica imprescindibile delle leadership: intercettare l’inconscio di un paese. Hillary, da questo punto di vista, rappresentava certamente un cambiamento (la prima possibile donna presidente americana), ma non rappresentava un cambiamento sufficiente rispetto al passato (il brand Clinton era usurato) e non rappresentava neppure una distanza netta da un preciso establishment (Trump è riuscito a essere percepito come il candidato anti establishment non perché non faccia parte dell’establishment ma perché è andato contro l’establishment meno amato d’America, quello rappresentato da Clinton).

 

Se applicato questo schema a una qualsiasi leadership mondiale capirete meglio quando un leader funziona e quando invece smette di funzionare. Non è questione se sia giusto o no: è la meccanica della nuova politica. A questo ragionamento va poi aggiunto un passaggio ulteriore che riguarda il posizionamento di una candidatura. A prescindere da quale sarà la traiettoria che verrà imboccata da Trump (il capitalismo e la globalizzazione non hanno casa in molte parti del mondo ma continuano a trainare l’economia mondiale) il candidato repubblicano ha scelto di riempire una precisa casella dello scacchiere politico. Una delle due caselle rappresentate magnificamente dalla famosa copertina dell’Economist: chiusura o apertura? Trump ha scelto la prima strada innervando il suo “Make America Great Again” di messaggi di chiusura, meno globlalizzazione, meno immigrati, meno islamici, meno presenza americana nel mondo, più giustizialismo, e lasciando così alla sua avversaria l’altra casella: l’apertura, ovvero la globalizzazione. Sono questi, se il termine ci è consentito, i due grandi partiti della nazione, e all’interno di ognuno di questi partiti vivono due correnti: una di destra e una di sinistra. In questo schema, che costituisce l’ossatura del nuovo mondo, non c’è dubbio che la forza politica più in difficoltà, in tutto il pianeta, coincida con la famiglia progressista. E’ sufficiente prendere un mappamondo per accorgersi di quello che sta accadendo. L’America latina è governata dai partiti conservatori. L’America è in mano al Partito repubblicano. Il Giappone è guidato per il secondo mandato da un liberale di centrodestra (Shinzo Abe). La Gran Bretagna è governata da conservatori (Theresa May). La Spagna è guidata dal Partito popolare di Rajoy. In Germania il centrodestra di Angela Merkel è da decenni il centro della politica tedesca. Nel Parlamento europeo il partito popolare ha la maggioranza dei seggi. In Francia la sinistra è così debole che molti elettori di sinistra (copertina dell’Obs di due settimane fa) stanno valutando di votare alle primarie del centrodestra (sì avete capito bene) per sostenere l’unico candidato della nazione che viene ritenuto un argine contro l’avanzata della Le Pen (Juppé). E tra i paesi del G7 gli unici ad avere leadership che potrebbero avere un futuro sono il Canada di Trudeau e l’Italia di Renzi. La difficoltà delle sinistre mondiali è collegata a un problema con cui devono fare i conti diversi universi progressisti ed è l’origine della crisi della gauche mondiale: non riuscire a essere contemporaneamente la sinistra dei diritti e dei doveri e riscontrare grandi difficoltà a essere percepiti trasversali come i propri avversari. In questo, la sinistra italiana, nel suo piccolo, rappresenta un caso unico nel panorama internazionale e Renzi non si sa se avrà successo (lo speriamo) ma se lo avrà sarà perché avrà capito che un leader politico che vuole rappresentare il fronte dell’apertura non può occuparsi soltanto dei diritti ma deve occupaesi anche dei doveri, del mercato, della globalizzazione, anche a costo di spostare verso destra il suo baricentro rispetto alle politiche economiche. Sugli altri tre temi (cambiamento, discontinuità, distanza dall’establishment) il presidente del Consiglio sta provando a trovare una chiave per non essere travolto dal partito dell’altra nazione ma in questo tentativo pesano ulteriori fattori. Da un lato l’assurdità di uno scenario politico su cui la sinistra tende a dividersi per le sciocchezze (legge elettorale) confondendo i piccoli dettagli (il ballottaggio) con quelle che sono le vere priorità (la battaglia tra apertura e chiusura). Dall’altro la difficoltà di rendere popolare e maggioritaria per un lungo periodo una posizione politica – quella della sinistra che predica discontinuità, cambiamento, lontananza dall’establishment, in una cornice di apertura non ostile alla globalizzazione – in un contesto mondiale nel quale dopo la fine del regno obamiano la sinistra si ritrova a fare i conti con un problema semplice da inquadrare. Il fronte che predica la chiusura (sia nella sua sfumatura di destra, sia nella sua sfumatura di sinistra) ha due leader politici e morali ben definiti che coincidono con Donald Trump (leader dell’internazionale anti sistema di destra) e con Papa Francesco (leader suo malgrado della sinistra tendenza Sanders). L’altro fronte, quello dell’apertura, fatica a trovare delle figure che possano rappresentarlo. In Europa ci sono Angela Merkel e Matteo Renzi, che in questo momento sono anche gli unici due leader che possono aspirare a guidare il partito dell’apertura. E anche per questo, fossimo al posto della sinistra, in Italia, ci penseremmo due volte prima di far fuori l’unico presidente del Consiglio di sinistra in Europa che può aiutare il mondo progressista a trovare una giusta miscela tra riformismo, apertura e anche un po’ di populismo. Pensarci.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.