Il discorso di Hillary Clinton dopo la vittoria di Trump (foto LaPresse)

I deplorevoli e gli incestuosi liberal

Giulio Meotti
“L’America rauca di Trump fa a pezzi l’utopia delle élite che parlano solo fra di sé: Obama, Martha’s Vineyard, Hollywood, la Silicon Valley, la stampa di Washington”. Interviste a Kotkin, Goldman, Dreher e Hanson.

Roma. In un articolo per il New York Times, dal titolo “La vita fuori dalla bolla liberal”, J. D. Vance ieri ha scritto che ad alimentare la vittoria di Donald Trump è stata la sensazione, presente in ampie parti dell’America, “che i leader vedono le loro preoccupazioni come il prodotto della stupidità nella migliore delle ipotesi e del razzismo nel peggiore dei casi”. Vance è l’autore del romanzo più pregnante sull’America che ha scelto Trump, “Hillbilly Elegy”, triste e malinconica epopea dell’America bianca, povera e dimenticata. Ne parliamo con alcuni intellettuali conservatori, trumpiani o scettici sul nuovo presidente degli Stati Uniti. “Hillary Clinton aveva tutto il supporto possibile, gli oligarchi della tecnologia, Wall Street, gli accademici e le ‘persone intelligenti’”, dice al Foglio Joel Kotkin, direttore del Center for Opportunity Urbanism e autore del libro “The Human City”. “Quello che Clinton non aveva erano le piccole città, la periferia e altri luoghi fuori moda. I democratici sono passati da essere il partito di Decatur (eroe militare, ndr) al partito di Martha’s Vineyard (la sede di villeggiatura della bella gente di sinistra, ndr). Nessuna sorpresa, quindi, che la classe operaia e quella media siano state a favore di Trump e che lo abbiano aiutato a sfondare in stati come Michigan, Wisconsin, Iowa. Gli americani volevano opportunità per la prossima generazione, non un declino gestito. Più di ogni altra cosa, il voto a Trump è un ‘no’ alle oligarchie e alle classi dirigenti che non solo accumulano ricchezza, ma che sono anche convinte di essere moralmente superiori. Trump potrà essere appariscente, come chiunque ostenti ricchezza, ma in confronto l’ipocrisia delle élite è infinitamente peggiore. Usano il politicamente corretto come standard di ciò che è accettabile e per controllare come vivono le persone. La preoccupazione per il cambiamento climatico ha galvanizzato le élite di Wall Street, Hollywood, la Silicon Valley, ma ha lasciato fredda la Main Street”.

 

La mappa del voto dice tutto. “Clinton ha vinto con largo margine nel nord-est e sulla costa occidentale, e in stati come Colorado, New Mexico e Nevada. Ma tranne l’Illinois, tutta la fascia centrale del paese, dagli Appalachi alle frange delle Montagne Rocciose, è andata solidamente a Trump. L’America di Trump presenta un modello alternativo che onora le piccole imprese e che non vede gli Stati Uniti come parte di un sistema globale da gestire. Che ci siano xenofobi nelle fila trumpiane è innegabile, ma per la maggior parte degli americani, i veri ‘deplorevoli’ sono stati i regolatori autonominatisi. Se le nostre classi dirigenti vogliono sapere come Trump ha avuto successo, hanno bisogno di guardarsi allo specchio”. David Goldman, che si firma come “Spengler”, è da tempo un intellettuale “trumpiano”, o che almeno non è salito sul carro dei repubblicani critici. “C’è qualcosa di glorioso nella notte delle elezioni in America”, dice Goldman al Foglio. “Qualunque cosa dica il popolo americano, si trasforma in qualcosa di solenne quando si tratta di scegliere i leader. L’elezione di Trump mostra che gli americani sono ancora gli americani: si assumono rischi, sperimentano, pensano, innovano, disposti ad abbracciare l’ignoto e a rifiutare lo stantio e il vecchio. Più di ogni altra cosa l’elezione dimostra che i tratti culturali più salienti dell’America rimangono intatti. Lincoln aveva ragione: non si può ingannare il popolo tutto il tempo. Clinton non ha potuto convincere il popolo che due più due fa cinque. Gli americani sanno che le loro vite sono peggiori, che i loro figli devono affrontare prospettive più povere di quelle che avevano. I media e i sondaggisti non lo hanno visto. Vivono nel loro mondo chiuso in se stesso, a distanza dalle preoccupazioni della gente comune, che essi guardano come soggetti per esperimenti sociali. Quello che abbiamo qui è la vecchia America: chiassosa, autotrasformante, rauca, ruvida, energica. Il modello di Trump è Franklin Delano Roosevelt. La correttezza politica ha aggiunto la beffa al danno. E ha motivato il voto per Trump. Ma il danno, la miseria economica, era più importante dell’insulto. Nessun paese può permettersi di lasciare che un sesto della manodopera marcisca nell’ozio”. E non si può vincere le presidenziali senza i deplorevoli. “Sono la più grande minoranza d’America”, continua Goldman. “Potrebbe anche essere la maggioranza. Possono essere o non essere razzisti, omofobi e così via, ma sanno che sono deplorevoli. Deplorevoli e fieri. Con quel termine, Clinton intendeva gli americani meno istruiti e politicamente scorretti, persone che pensano che avere un pene fa di te un maschio e una vagina una femmina. Sotto Obama, le scuole rischiavano di perdere i fondi federali se insistevano su questo criterio per l’ammissione ai bagni. I democratici si aspettavano che la gente votasse per loro in cambio di doni governativi. Invece hanno votato per Trump perché volevano qualcosa di meglio. E’ la famiglia media il cui reddito reale è diminuito deplorevolmente del cinque per cento, il 35 per cento dei maschi che deplorevolmente hanno abbandonato la forza lavoro, il 40 per cento degli studenti che deplorevolmente non pagano i prestiti. Conducono una vita deplorevole e si aspettano che le vite dei loro figli saranno ancora più deplorevoli della loro. L’unica cosa che non si può fare è sputare su di loro e dire loro che piove. Non vi perdonano per quello”.

 

Giornalista e romanziere, Rod Dreher è il caporedattore dell’American Conservative e uno di quelli che di più e per primo ha intercettato Trump: “La vittoria di Trump è un ripudio sconcertante delle élite culturali liberal, in particolare della loro correttezza politica”, dice al Foglio. “Per questo gli sono grato. Ma i conservatori non dovrebbero fare l’errore di pensare che si tratti di una affermazione di conservatorismo. Trump non è un conservatore filosofico, e non è certo un conservatore religioso o morale. Trump rappresenta due Americhe. L’America di persone che lavorano duramente, ma non credono che siano giustamente ricompensati per il loro lavoro. Piuttosto, vedono i ricchi prosperare. E sanno che le élite nei media, nel mondo accademico, nel diritto, nell’economia e altrove, disprezzano persone come loro, e non gli permetteranno l’accesso ai loro circoli. L’altra America è un’America di perdenti che dà la colpa di tutto agli altri per i loro problemi. Ciò che unisce queste due Americhe dietro Trump, penso, è il sentimento che queste persone abbiano perso il controllo del proprio destino”.

 

“Trump è il furore popolare contro i sogni utopici antidemocratici di una élite, che è essa stessa antidemocratica data la mancanza di risonanza del suo messaggio”, dice al Foglio Victor Davis Hanson, storico conservatore della California State University e all’inizio critico del populismo trumpiano. “La gente è stanca delle élite autoacclamate. Quanto più il presidente Obama, Hollywood, la Silicon Valley, la stampa di Washington, Wall Street e gli esperti delle due coste tengono conferenze in America, tanto più l’America ne ha abbastanza”. Che cosa è andato storto nelle élite? “Vivono in una bolla, parlano solo tra di sé, e mai veramente hanno capito l’America tra le due coste. Sono arroganti e non hanno la volontà di parlare a tutti. Obama per otto anni ha sminuito milioni di americani e continuava a parlare davanti a loro, fino ai ‘déplorables’ di Hillary. La stessa cosa sta accadendo in Europa”. E’ il nuovo “Alienatus Americanus”. Secondo Hanson è “l’americano di tutti i giorni”, uno “straniero” stanco delle “preoccupazione dei membri della costa le cui vite incestuose emergono nell’ultimo tesoro WikiLeaks. Le classi lavoratrici bianche sono sempre più il bersaglio della caricatura popolare. Sono grammaticalmente scorrette e obese che abitano il reality show degli ultimi dieci anni. A volte i giornalisti del New York Times, nel ruolo di antropologi culturali, riferiscono di quanto strane siano le persone che vivono tra i corridoi della costa, i buffoni inetti dell’America rurale, psicopatici criminali sfigurati da tatuaggi e accenti sinistri. Trump ha ottenuto la simpatia tra gli americani estraniati perché rappresenta la scelta nichilista: l’idea di un Sansone umiliato e condannato che tira giù le colonne del tempio filisteo.  Nel caso degli antichi Romani o delle classi dirigenti britanniche, territorio, nascita, educazione, denaro e notorietà culturale sono stati tra gli ingredienti che hanno fatto un establishment. Ma la nostra élite americana moderna è diversa. La residenza, sia nel Boston-Washington, o sia nel corridoio San Francisco-Los Angeles, è un requisito. L’esposizione pubblica conta come l’istruzione, Harvard, Yale, Princeton, Berkeley, Stanford. Ma molti miliardari, in particolare nel Midwest, non fanno parte delle élite, in quanto il loro denaro non si traduce in influenza politica o culturale. Particolarmente influenti sono i multimilionari della porta girevole, le banche e Wall Street, i Tim Geithner, i Jack Lew, gli Hank Paulson, i Robert Rubin, ognuno dei quali è venuto alla Casa Bianca e nelle burocrazie per arricchirsi, ma che sembrano sempre scioccati quando il pubblico non apprezza i loro percorsi incestuosi di salvataggi, piani di soccorso, regolamenti. E’ il nesso tra Big Government, Big Money e Big Media”.

 

Incestuoso, conclude Hanson: “Susan Rice è sposata con l’ex produttore televisivo Ian Cameron. Ben Rhodes, che ha redatto i talking points su Bengasi e si vantava di ingannare il pubblico sull’Iran, è il fratello del presidente della Cbs News David Rhodes. John Kerry è sposato a Teresa Heinz, la vedova. L’ex addetto stampa di Obama Jay Carney ha sposato Claire Shipman di ‘Good Morning America’. Huma Abedin è sposata al sexter Anthony Weiner. Mark Zuckerberg ha attaccato i muri di confine ma è coinvolto in controversie sulle pattuglie di sicurezza per creare una Linea Maginot intorno alla sua casa a Palo Alto. Quello che mi offende di più degli uomini vuoti di Washington non sono le fonti e i metodi attraverso i quali accumulano ricchezza, potere e influenza, o i valori che abbracciano per perpetuare il loro privilegio, ma l’indignazione finta che esprimono quando qualcuno osa suggerire, con le parole o il voto, che essi sono mediocri”.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.