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L'America invisibile

Con la camicetta e il bavero della giacca a tinte viola, il colore liturgico del lutto, Clinton ha fatto il discorso più difficile della sua vita e il più efficace della sua campagna, un “concession speech” tutto resilienza e richiami all’unità nazionale, con toni sacerdotali culminati nel sacrificio estremo in nome del bene fatto per le generazioni a venire.

New York. Con la camicetta e il bavero della giacca a tinte viola, il colore liturgico del lutto, Hillary Clinton ha fatto il discorso più difficile della sua vita e il più efficace della sua campagna, un “concession speech” tutto resilienza e richiami all’unità nazionale, con toni sacerdotali che trovano il loro culmine nel sacrificio estremo in nome del bene fatto per le generazioni a venire. Sono fioccate, non a caso, le citazioni bibliche. “Mai smettere di credere che combattere per ciò che è giusto non valga la pena”, ha detto la candidata sconfitta per una seconda ultima volta. I consiglieri in sala piangevano, Bill che le stava accanto ha trattenuto a fatica le lacrime, lei le ha ricacciate indietro più volte. Con il garbo e il senso del dovere civico che si confanno al codice della democrazia americana, ha promesso al presidente eletto Donald Trump una “open mind”, auspicando una transizione senza tumulti. Uno dei passaggi che non arriveranno sulle prime pagine dei giornali contiene un indizio intorno ai motivi della sua sconfitta. Magnificando la democrazia costituzionale, Hillary ha esaltato “la libertà di culto e di espressione”, dove libertà di culto è un modo ipercorretto per aggirare la questione della libertà di religione che ha infiammato un popolo che martedì ha votato per Trump. La libertà di culto è il diritto alla sagrestia, all’irrilevanza catacombale; la libertà religiosa implica il fiorire di una concezione nello spazio della società civile e politica. La prima è questione astrattamente liberale, la seconda è un tema identitario a cui una certa America è saldamente aggrappata. A quell’America Trump ha saputo parlare direttamente, senza infingimenti, mentre Hillary offriva surrogati politicamente corretti.

 

Se si porta l’esempio sui cortocircuiti liberal nei campus, sui “bias” dei media (sei giornali in tutta America hanno dato l’endorsement al presidente eletto Trump), al conformismo dei modi di vita, allo snobismo dell’accademia si ricava l’immagine dell’élite astratta e scollegata da un popolo che cerca identità, orientamento, significato. Una scelta linguistica all’apparenza irrilevante può diventare l’indizio di una forma mentale che non s’adatta al sentire comune degli americani. Hillary ha vinto il voto popolare, vero, ma è stata spazzata via in quella rust belt (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania) che non è soltanto terra di operai bianchi frustrati, ma è anche l’avamposto della crisi esistenziale americana. Come ha scritto Ramesh Ponnuru, intellettuale conservatore di origini indiane, non certo un eroe della alt-right xenofoba, “Trump ha vinto diversi stati che hanno votato due volte per il primo presidente nero. I primi dati suggeriscono che Trump ha conquistato un decimo degli elettori che avevano un’opinione positiva dell’operato di Obama. Se questo si dimostrerà vero, significa che non avrebbe vinto senza questi elettori”.

 

La parodia del troglodita con il forcone che esce dalla roulotte per andare a votare il suprematista bianco si scolora di fronte a una vittoria sontuosa e imprevista. E peraltro svanisce anche, almeno in parte, la tesi del referendum inclemente sull’operato di Obama. Come Hillary non ha trovato i modi per intercettare l’elettorato, così giornali, sondaggisti e accademici non hanno trovato gli strumenti per mapparlo e spiegarlo. Il quotidiano Politico ha sintetizzato così: “Avevamo torto. Ma avevamo più che torto. Siamo stati ridicolmente inconsapevoli. L’intero complesso politico-mediatico di Washington ha completamente mancato il bersaglio. Non di centimetri o di metri, ma di miglia Per un anno e mezzo, abbiamo deriso chi diceva che i sondaggi erano sbagliati, che l’industria dei numeri è distrutta. Avevamo gli occhi allenati dai pronostici e dagli esperti, ma tutti avevamo torto”. Paul Krugman, che è premio Nobel, “pundit”, coscienza dei liberal e soprattutto è uno che padroneggia sommamente le arti che teoricamente dovrebbero spiegare la storia, è stato uno dei primi ad ammettere nella notte elettorale che non conosce il paese in cui è nato e cresciuto. Lo abita e ne discetta con argomenti colti e validi, ma non lo afferra.

 

Eppure tutti gli elementi del successo di Trump erano lì, a portata di mano, e lui non ha fatto altre che creare un coacervo di pezzi ideologici già visti, soffiando via la polvere dai dettami della “old right”. Soltanto che l’establishment non aveva gli strumenti per vedere e decrittare, e così un popolo che si è dimostrato maggioritario (almeno abbastanza per decidere il collegio elettorale) è passato al di sotto della portata dei radar. Hillary, in un certo senso, nel suo discorso non ha fatto una “concessione”, ché la parte in cui ha ammesso di non aver capito la chiave interpretativa del popolo americano non è mai arrivata. Ha parlato solo di un popolo “più profondamente diviso di quanto pensassimo”. Le ha fatto eco Barack Obama, il quale dal giardino delle rose della Casa Bianca ha ricordato che “il sole è sorto anche oggi”, l’unica profezia azzeccata dei democratici. E, a dirla tutta, a Washington c’era un’uggia autunnale che proprio al sole non faceva pensare. Il presidente ha detto che “ora tutti facciamo il tifo per il suo successo nell’unificazione” e in un passaggio complicato, da un punto di vista delle idee, ha detto che le differenze ovvie fra lui e Trump in fondo no sono poi così diverse da quelle che otto anni fa lo dividevano da George W. Bush.