Donald Trump, presidente degli Stati Uniti (foto LaPresse)

Tra Virgolette - Wall Street Journal

La fine dell'èra della deferenza

Redazione
Il politicamente corretto funziona come un regime dispotico. Trump è stato un’intuizione liberatoria

Roma. “Le elezioni americane di quest’anno rivelano qualcosa di tragico nel rapporto tra il conservatorismo moderno e la vita americana. Come ideologia – e certamente come identità politica – il conservatorismo è meno popolare dei princìpi e dei valori per cui si batte”. Shelby Steele, senior fellow alla Hoover Institution della Università di Stanford, ha scritto sulla versione americana del Wall Street Journal di ieri una lunga riflessione sulla cultura della deferenza e del politicamente corretto che ha investito questa campagna elettorale americana. “C’è un pregiudizio generalizzato secondo cui l’assenza di empatia e il bigottismo sarebbero in qualche modo endemici al conservatorismo, i rigori della libertà e del capitalismo richiedono per forza di cose lo sfruttamento e l’ineguaglianza, e questo nonostante il fatto che molte politiche liberal fin dagli anni Sessanta hanno soltanto peggiorato le diseguaglianze che cercavano di superare”. Il conservatorismo soffre di una cattiva reputazione in moltissimi settori rilevanti, dai media di massa al mondo dell’high tech, e Steele si chiede: perché? “La risposta inizia in un fatto particolare della vita americana. Come scrisse William Styron, la schiavitù è stata ‘la grande circostanza trasformativa della storia americana’. La schiavitù e l’oppressione delle donne e di tutte le minoranze sono state particolarmente tragiche perché l’America è stata in tutti gli altri campi la nazione più illuminata del mondo. Qui, in presenza di questa profonda ipocrisia, è iniziata l’idea di un’America come nazione vittimizzante. E qui è nato il suo inevitabile corollario: quello di una nazione indebitata moralmente con le sue antiche vittime, i neri in particolar modo, ma anche tutte le altre categorie maltrattate”. Per Steele, questo indebitamento è diventato un “imperativo culturale”, che l’America di oggi deve onorare per non perdere la sua autorità morale e la sua legittimità come democrazia: “L’America deve mostrarsi redenta dal suo passato oppressivo”. Il modo in cui ha scelto di farlo si chiama deferenza. “Fin dagli anni Sessanta, quando l’America ha assunto infine tutte le responsabilità per il suo passato, la deferenza nei confronti di tutti i gruppi con una qualsiasi pretesa di essere vittime nel passato o nel presente è diventata obbligatoria”, scrive Steele.

 

“La Great society e la War on poverty sono state due delle prime vere politiche deferenti”, scrive Steele. “Da quel momento in poi la deferenza è diventata un sintomo quasi universale della decenza umana che assolve dalle storture del passato americano. La deferenza è, anzitutto, una richiesta di perdono”. Il problema, continua Steele, è che questa deferenza nei confronti delle vittime si è evoluta in uno strumento di conquista del potere. Nel momento in cui si riconosce con condiscendenza il debito dell’America, il paese sembra quasi redimersi e poter assumere così il suo status eccezionale nell’ordine mondiale. Questo porta a “vero potere, il tipo di potere che fa eleggere le persone”. “Il Partito democratico e in generale il mondo liberal hanno prosperato fin dagli anni Sessanta grazie al potere della deferenza. Quando Hillary Clinton parla di un ‘basket of deplorables’ parla di un cumulo di ‘ismi’ e di fobie – razzismo, sessismo, omofobia, islamofobia. Ciascuno di questi è un’opportunità per lei di mostrare deferenza nei confronti di un gruppo vittimizzato e per porsi come la redentrice dell’America. E, di conseguenza, il conservatorismo è privo di deferenza. I sostenitori di Donald Trump sono identificati come un gruppo di persone piccole e rancorose, come odiatori che amano ciecamente l’America e hanno nostalgia per il suo passato di esclusione… Il termine ‘progressista’ è diventato una parola in codice per redimersi da un’America mossa dall’odio”. La deferenza, scrive Steele, si muove attraverso la stigmatizzazione, minacciando di marchiare le persone come bigotti regressivi. Clinton, i democratici e i liberal in generale hanno sempre combattuto usando le stigmatizzazioni, e sono stati abbastanza di successo da far sì che molti conservatori siano imbarazzati di definirsi tali. Il conservatorismo è un punto di vista ribelle, il liberalismo è mainstream. Questa visione del mondo è oppressiva per i conservatori perché li mette nella posizione di essere un po’ imbarazzati da quello che sono e da ciò che credono per davvero.

 

“Nella vita americana la deferenza è stata codificata come politicamente corretto”, scrive Steele. “E il politicamente corretto funziona come un regime dispotico. E’ un’oppressione che espande i suoi editti sempre di più nelle radici della vita di tutti i giorni. Ne siamo afflitti, ma nella maggior parte dei casi tolleriamo le sue richieste. Ma questo significa che viviamo in una società pronta a gettare il suo giudizio su di noi, a svergognarci in nome di una politica in cui non crediamo davvero. Significa che la nostra decenza richiede una certa dose di autotradimento”.

 

Tutto questo porta a Trump, che Steele definisce “un uomo fondamentalmente limitato ma di eccezionale carisma, impossibile da ignorare”. Per Steele, nel momento in cui Trump è entrato in gara la guerra culturale che da lungo tempo covava in America è finalmente esplosa. “Trump è stato un candidato non deferente. E’ sembrato estraneo a ogni codice della decenza. Ha invocato ogni possibile stigmatizzazione e l’ha combattuta in maniera stridente. Ha fatto il lavoro sporco che milioni di americani volevano fare ma a cui mancava una piattaforma. Ma il carisma straordinario di Trump ha riguardato molto più ciò che rappresenta che ciò che potrebbe fare per davvero da presidente. Il suo ruolo è modificare la cultura della deferenza”.

 

“La società, come gli individui, a volte ha delle intuizioni. Donald Trump è un’intuizione”, conclude Steele. “Almeno a livello simbolico, forse lui potrebbe essere in grado di combattere l’egemonia della deferenza – se non come liberatore almeno come riformatore. Forse potrebbe risollevare la parola ‘responsabilità’ dal suo significato pigro di richiesta pregiudiziale e bigotta da fare alla gente. Questo, unito a un rispetto basilare per la capacità delle persone di risollevarsi da sole, potrebbe portare su un lungo percorso verso un’America migliore e più giusta”.