I Pirati islandesi? Sono arrivati tre

Guido De Franceschi
Il partito antisistema ha fatto flop, vince il libero mercato. La strana Islanda non è così strana

No, il Partito pirata islandese – il solito movimento antisistema, populisteggiante e palingenetico che la stampa internazionale presentava come probabile trionfatore – non ha vinto le elezioni islandesi. E, no, non è arrivato neanche secondo. I pirati hanno triplicato i voti e i seggi, ma il drakkar con la vela nera su cui veleggiavano alla conquista dell’isola si è rivelato un gozzo e si è impigliato in un non sfavillante 14,5 per cento dei voti e in un deludente terzo posto.

 

Ogni volta che ci si accinge ad analizzare le elezioni islandesi si sdrucciola verso il colorismo impressionista e lo “strano ma vero”, per superare l’imbarazzo di dover applicare le categorie “nazionali” della scienza politica a un microcosmo con gli stessi abitanti della provincia di Viterbo sparsi in un territorio grande un terzo dell’Italia. La strana Islanda non è forse poi così strana. Le donne – Vigdís Finnbogadóttir nel 1980 fu la prima presidente eletta democraticamente nel mondo – hanno più potere politico che altrove? Beh, non è così sorprendente che una caratteristica comune a tutto il nord Europa si sia per la prima volta manifestata concretamente nel paese più piccolo dell’area. Uno scandaletto che altrove passerebbe in cavalleria in Islanda fa subito cadere il premier come è accaduto nell’aprile scorso a Sigmundur Davíd Gunnlaugsson, le cui operazioni finanziarie sbarazzine sono state svelate dai cosiddetti Panama Papers? Beh, in un mondo piccolo che si riduce demograficamente a una cittadina, cioè Reykjavík, è comprensibile che la pressione di una piazza in rivolta – bastano poche migliaia di persone – trovi un suo moltiplicatore proprio nelle ridotte dimensioni del contesto. La crescente inclinazione verso un assemblearismo orizzontalista – “La Rete! La Rete!” – ha trovato terreno fertile in Islanda e ha portato a redigere una nuova Costituzione crowdsourcing, peraltro poi bocciata dal Parlamento? Beh, è normale che in un paese con 329.000 abitanti si esperiscano più facilmente meccanismi di democrazia direttissima: in due dei quattro cantoni svizzeri con meno abitanti si vota ancora per alzata di mano in piazza, ma non certo nel Canton Zurigo abitato da un milione e mezzo di abitanti. Ma che l’Islanda non sia poi così singolare lo dimostrano soprattutto i risultati elettorali di sabato scorso.

 

Il Parlamento ha 63 seggi. Il tradizionale Partito dell’indipendenza, di centrodestra, è cresciuto: 21 seggi (ne aveva 19). Anche il partito portatore delle abituali istanze di sinistra-sinistra, il Left-Green Movement, è cresciuto e ha ottenuto 10 seggi (ne aveva 7). Il Partito pirata ha conquistato gli stessi seggi della sinistra verde (10, ne aveva 3), ma meno voti. Il Partito del progresso, di centro e ruralista, che governava insieme con il Partito dell’indipendenza ed esprimeva il premier, il succitato Sigmundur Davíd (e, voilà!, ecco servita un’altra stramberia: gli islandesi, che non hanno cognomi ma patronimici, chiamano tutti per nome, politici compresi), ha ovviamente scontato i Panama Papers e ha salvato soltanto 8 seggi (ne aveva 19). Un altro partito, ascrivibile almeno per il suo nome, “Futuro luminoso”, alla nouvelle vague rinnovatrice, ha subito una flessione (4 seggi, ne aveva 6). L’Alleanza socialdemocratica si è inabissata (3 seggi, ne aveva 9) ma anche sulla crisi del centrosinistra tradizionale non sembra che l’isola atlantica possa rivendicare l’esclusiva in Europa.

 

La prova che l’Islanda sia strana al punto che la sua stranezza non si manifesta in risultati elettorali strani è fornita da un ultimo dato. Per fare un governo ci sono soltanto due opzioni: o ripoporre la combo uscente Partito dell’indipendenza-Partito del progresso o mettere insieme in un “dentro-tutti” l’intera opposizione (Sinistra verde, Partito Pirata, Futuro luminoso e socialdemocratici). Nessuna delle due somme dà però i 32 seggi necessari per la maggioranza. Il kingmaker assoluto è quindi il settimo partito entrato in Parlamento, Vidreisn ovvero “Riforma” o “Rigenerazione”, un movimento neonato che ha ottenuto il 10 per cento e 7 seggi. E’ un partito rivoluzionario come suggerisce il nome? E’ un oggetto politico così bizzarro che solo gli eccentrici islandesi avrebbero potuto concepirlo e votarlo? Neanche per sogno. Riforma, che per ora ha escluso riproposizioni “corrette” del governo uscente, è uno spin-off nato dal (tradizionale) Partito dell’indipendenza, ha sottratto molti voti alla (tradizionale) Alleanza socialdemocratica e ha una neoclassica piattaforma da partito della nazione: è centrista, è liberomercatista, è favorevole con cuidado al mantenimento del welfare state e a politiche ambientali sostenibili e sostiene fortemente l’ingresso dell’Islanda nell’Unione europea, una posizione, quest’ultima, che può apparire stravagante soltanto a chi attribuisca agli antisistema, sconfitti anche a Reykjavík, quella primazia che non confermano quasi mai nelle urne. Che banali, questi islandesi.

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