Mariano Rajoy (foto LaPresse)

Alla fine Rajoy ce l'ha fatta

Eugenio Cau
Dopo quasi un anno di paralisi, la Spagna ha un nuovo governo. Ma il difficile inizia adesso. Tutte le sfide che attendono il premier di Madrid, tra compromessi e veti.

Domenica mattina la Spagna si sveglierà con un governo nel pieno delle sue funzioni per la prima volta in quasi un anno. Dieci mesi per la precisione, da quel 20 di dicembre dell’anno scorso in cui gli spagnoli hanno votato per poi scoprire che il loro voto non era servito, che sarebbe stato ripetuto qualche mese dopo, e forse una terza volta, se il frammentato mondo politico spagnolo non fosse corso ai ripari in extremis (il conto alla rovescia per terze elezioni sarebbe iniziato il 31 ottobre).

 

La soluzione è stata trovata sabato sera, quando il Parlamento spagnolo ha votato, in seconda istanza, la formazione di un governo di minoranza di Mariano Rajoy, premier uscente del Partito popolare (Pp) il cui governo facente funzioni ha traghettato il paese fin qui. Lo ha fatto grazie all’astensione degli avversari di sempre del Partito socialista (Psoe), che per acconsentire questo voto si sono spaccati come mai nella loro storia. Rajoy ha ottenuto 170 voti favorevoli (quelli del Pp e dei centristi di Ciudadanos), 68 astensioni tutte del Partito socialista e 111 voti contrari. Era la seconda votazione di fiducia, ed è bastato che i sì fossero in numero maggiore dei no per consentire l'approvazione dell'esecutivo.

 

Il voto è avvnuto con la consapevolezza che per la Spagna e il suo governo il difficile inizia adesso. E’ strano dirlo, visto che stiamo parlando di un paese che ha vissuto l’ultimo anno in un clima di totale instabilità politica, e che negli anni precedenti è stato uno dei più colpiti dalla Grande recessione. La Spagna non ricadrà più negli stessi abissi, ma la continua ricerca di compromesso necessaria al governo di minoranza rischia di non consentire la risoluzione dei nodi, delle difficoltà e degli imbarazzi che l’affaticato sistema politico e istituzionale spagnolo ha accumulato negli ultimi anni.

 

Dopo un primo dibattito parlamentare di mercoledì e giovedì sul voto di fiducia (giovedì sera, in una prima votazione in cui era richiesta la maggioranza assoluta dei sì, Rajoy non è passato) all'insegna dell'imbarazzo, con i socialisti scornati e divisi, la giornata di sabato è iniziata con l'annuncio delle dimissioni da parlamentare di Pedro Sánchez, ex segretario dei socialisti defenestrato all'inizio del mese dal suo stesso partito a causa della sua linea intransigente che ormai era diventata l'unica ragione della paralisi del paese. Insieme ai 15 deputati socialisti che, disobbedendo al loro partito, hanno votato no a Rajoy (e che per questo subiranno conseguenze disciplinari), Sanchez inizierà adesso una nuova corsa alla segreteria, o forse qualcosa di più.

 

Nel dibattito di sabato, Rajoy ha detto che non cerca dal Parlamento "un assegno in bianco": "non chiedo la luna, chiedo un governo prevedibile", ha detto, anticipando così una stagione di difficili compromessi. Il primo è arrivato preventivamente giovedì, quando Rajoy ha annunciato lo stralcio della parte più controversa di quella riforma educativa che era stata uno dei capisaldi del governo del Pp. Nel frattempo, i socialisti assicuravano i loro elettori che dopo la difficile astensione daranno il via a un'opposizione durissima al governo, che il magazine Tiempo ha definito "operazione inferno", mentre Podemos animava la protesta contro il governo dentro e fuori dall'Aula, dove gruppi di manifestanti si sono radunati per protestare contro il nuovo esecutivo.

 

Questo clima di imbarazzi e di compromessi è quello che vedremo almeno nei prossimi mesi in Spagna, ed è quello che impedirà con ogni probabilità quella chiarezza di intenti che finora, nel bene o nel male, aveva fatto del paese iberico il progetto pilota di molti fenomeni di interesse continentale. E’ dalle grandi città spagnole governate da Podemos che abbiamo capito, prima ancora che il Movimento 5 stelle arrivasse a Roma, che i partiti populisti e antisistema sono costituzionalmente inadatti all’attività di governo, a meno che non accettino enormi compromessi e un processo di normalizzazione totale. E’ grazie a questi mesi di immobilismo in cui il Psoe ha tenuto paralizzato un intero paese a causa della linea intransigente del suo ex segretario che abbiamo avuto conferma del fatto che il modello del socialismo tradizionale è morto se non riesce a innovarsi radicalmente e a riconoscere che le ricette che funzionano, almeno per ora, arrivano da destra. L’applicazione di queste ricette è stato ciò che ha consentito a Rajoy di dare vita al piccolo miracolo economico spagnolo, paese che cresce più di tutti i suoi colleghi europei, e dove la disoccupazione, seppure altissima, è calata di otto punti in pochi anni.

 

“Avere un governo che non può governare è come non averlo”, ha detto Rajoy giovedì mettendo in guardia contro il pericolo di una “legislatura sterile”. Per il premier, che in questi mesi ha definito un’idea pratica di governo in cui si fa ciò che è necessario al netto delle divisioni partitiche, inizia il compito difficile di evitare che la Spagna diventi il reame degli imbarazzi e dei veti. Rajoy ha detto che annuncerà la composizione del suo governo a metà della prossima settimana. Il primo banco di prova, l'approvazione di una dura legge Finanziaria per ridurre il deficit spagnolo, arriverà già nelle prossime settimane.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.