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Il dispetto referendario. Perché la Colombia ha votato no alla pace con le Farc

Maurizio Stefanini
Con il 50,24 per cento vince il no al referendum che voleva il trattato di pace con le Forze armate rivoluzionarie colombiane. Intanto la ricerca di cavilli per riaggiustare una situazione in apparenza senza vie di uscita è già iniziata.
E’ finita così: 6.431.372 no, 50,24 per cento; 6.377.464 sì, 49,75 per cento. Molto di misura, ma i colombiani al referendum hanno cassato il trattato di pace con la guerriglia delle Farc che era stato celebrato appena una settimana prima a Cartagena in gran pompa magna, con la presenza di una folla di capi di Stato e di governo. In realtà, anche per colpa dell’uragano Matthew, ha votato solo il 37 per cento degli iscritti ai registri elettorali, ma a differenza del referendum che si è tenuto lo stesso giorno in Ungheria, in Colombia non c’era un quorum minimo di validità. C’è però un elemento evidente in comune tra i due eventi, come tra altri appuntamenti referendari recenti, da quello che ha detto no in Bolivia alla possibilità di rieleggere Evo Morales alla Brexit passando per il referendum olandese sull’Ucraina: una sorta di voglia di far dispetto, che ha portato gli elettori a disattendere le aspettative dell’establishment, qualunque esse fossero. Un voto dunque euroscettico dove l’establishment era eurofilo; eurofilo dove era euroscettico;  e in apparenza “per la guerra”, dove l’establishment voleva la pace. Andrés Pastrana e Álvaro Uribe Vélez, i due ex-presidenti alla testa della campagna per il no, avevano avvertito i capi di Stato e di governo stranieri che la loro presenza alla Pace di Cartagena avrebbe costituito un’indebita interferenza su un processo elettorale in corso. Evidentemente, anche molti colombiani hanno ritenuto che fare la pace prima del referendum che avrebbe dovuto approvarla era un voler mettere gli elettori davanti al fatto compiuto, e non ci sono stati.

 

Si tratta di un risultato a sorpresa: dopo un iniziale vantaggio dei no, i sì avevano iniziato presto a prevalere nei sondaggi, e se pur dopo un massimo del 72 per cento la forchetta aveva ripreso a restringersi, tuttavia l’approvazione del Trattato di Cartagena veniva data per scontata. Ma a monitorare con attenzione i tam tam sulle reti sociali una grande effervescenza per il no risultava evidente, e un segnale eloquente era stato che all’ultimo momento le stesse Farc avevano annunciato la loro intenzione di risarcire le vittime, consegnando allo Stato entro 180 giorni i loro asset finanziari e patrimoniali. Proprio una delle richieste che Uribe aveva fatto (anche nella sua intervista al Foglio): sebbene potesse restare un dubbio se effettivamente il terzo gruppo guerrigliero più ricco del pianeta avrebbe rinunciato a tutta la propria fortuna.

 

Come per la Brexit, però, anche qui si apre ora una situazione imprevista, e che coglie alla sprovvista gli stessi vincitori del referendum. I militanti del Centro Democratico, il partito di Uribe, hanno in effetti festeggiato in modo discreto, ricordando che anche loro vogliono una pace “stabile e duratura”.

 

“Vogliamo contribuire a un grande patto nazionale”, ha commentato lo stesso Uribe. “Chiediamo protezione dalle Farc e che cessino tutti i delitti. Come presidente, conservo intatte le mie facoltà e le mie obbligazioni per mantenere l’ordine pubblico e per cercare e negoziare la pace”, ha detto il presidente Juan Manuel Santos, dopo aver convocato ministri e negoziatori. Santos, che si vede con questo voto scappare di mano un Nobel per la Pace assieme al capo delle Farc Timoleón Jiménez per cui sembrava il grande favorito, garantisce che comunque “il cessate il fuoco e delle ostilità bilaterale e definitivo continua a vigere, e continuerà a vigere. Ascolto quelli che hanno detto no e ascolto quelli che hanno detto sì. Tutti, senza eccezione, vogliono la pace. Così hanno detto espressamente”. Convocherà dunque tutte le forze politiche e in particolare i sostenitori del no per stabilire un dialogo, e rimanderà all’Avana il capo negoziatore Humberto de la Calle e l’alto commissario di pace Sergio Jaramillo per discutere cosa fare con i rappresentanti delle Farc.  

 

“Le Farc mantengono la loro volontà di pace”, promette anche Timochenko. “Con questo risultato sappiamo che la nostra sfida come movimento politico è più grande, e che dobbiamo essere più forti per costruire una pace stabile e duratura”. Come minimo, la conferma dell’impopolarità delle Farc rende il loro processo di trasformazione in un normale partito politico più complicato. 

 

In molti hanno però ricordato, dopo questo risultato, che la Colombia “è un Paese di avvocati”, quasi come l’Italia. E la ricerca di cavilli per riaggiustare una situazione in apparenza senza vie di uscita è già iniziata. Qualcuno ha ad esempio osservato che il referendum vincola il Presidente ma non il Congresso, e che dunque un compromesso accettabile anche al Centro Democratico potrebbe essere ricercato tra deputati e senatori. Qualcun altro sta pensando a un’Assemblea Costituente: l’approvazione per referendum invece che con una Costituente era stata imposta da Santos alle Farc, ma paradossalmente la convocazione di una simile Assemblea è quasi l’unica cosa su cui Uribe è d’accordo con gli ex-guerriglieri.  La verità, però, è che un piano B non c’era. E il rischio è che riprendano le armi alcune delle bande guerrigliere che più si erano mostrare recalcitranti al negoziato deciso dai vertici.

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