Una donna e bambini ebrei deportati

Il caso Kielce e non solo. La Shoah oltre la Shoah

Daniel Mosseri
Il pogrom del 1946 nella città polacca e la commemorazione di Babi Yar in Ucraina

Berlino. Settantacinque anni fa a Babi Yar, in Ucraina, nazisti tedeschi e collaborazionisti locali massacravano alcune decine di migliaia di ebrei: gli storici non hanno ancora stabilito se i civili uccisi furono 33 mila o anche tre volte tanto, come indicano alcuni ricercatori. Quella compiuta alle porte di Kiev nel settembre del 1941 resta una delle peggiori carneficine della storia recente e il segno di come la macchina dello sterminio del popolo ebraico fosse già ben avviata dopo un rodaggio avviato con la Notte dei cristalli il 9 novembre del 1938. L’Ucraina di oggi ricorda con una serie di commemorazioni aperte dal presidente Poroshenko assieme al suo omologo israeliano Rivlin, poi rientrato a Gerusalemme per i funerali di Shimon Peres. Babi Yar è una macchia di sangue indelebile sulla mappa dell’Europa in guerra, eppure la fine del Secondo conflitto mondiale non ha comportato la fine delle violenze contro gli ebrei.

 

E’ il caso di Kielce, il 4 luglio del 1946. Quel giorno, nella città della Polonia centromeridionale si consuma il peggiore pogrom del Dopoguerra: l’efferata violenza di civili su altri civili in tempo di pace in virtù di odii antichi e moderni. La guerra è finita da un anno e la Polonia ricomincia appena a respirare. Nelle città ha fatto ritorno qualche sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e qualche altro sparuto ebreo che era riuscito a scappare a est prima dell’arrivo delle SS. Non è un controesodo ma un rientro alla spicciolata: nel 1939 gli ebrei di Kielce erano 24 mila, un terzo della popolazione; sotto i nazisti la città viene dichiarata Judenrein, libera da ebrei; dai lager torneranno in 200 e, di questi, 42 perderanno la vita nel pogrom scatenato dai loro vicini di casa.

 

Al loro rientro i sopravvissuti non sono bene accolti: non amati perché ebrei, ora sono anche considerati traditori filosovietici; in prima fila a odiarli ci sono i comunisti polacchi. La miscela esplosiva trova la sua miccia in un’accusa tanto abusata nella storia quanto ancora attuale nel 1946: l’omicidio rituale. Il 1° luglio del 1946 Henryk Blaszczyk, 8 anni, sparisce da Kielce; due giorni dopo torna a casa spiegando di essere riuscito a scappare da una palazzina abitata da ebrei che si accingevano a ucciderlo per impastarne il sangue. Da anziano Blaszczyk confesserà che il suo racconto fu pura messinscena. E tuttavia il ricorso all’accusa del sangue vecchia di mille anni scatena la furia dei suoi concittadini. Miliziani comunisti entrano nella palazzina “del rapimento”, disarmano e fucilano 17 fra gli ebrei presenti. Gli altri, datisi alla fuga, sono linciati dalla folla, sostenuta da un gruppo di minatori provvidenzialmente apparsi a dare man forte. Le forze dell’ordine restano a guardare: a fine giornata si contano 42 ebrei uccisi e 80 feriti. I fatti di Kielce spinsero molti degli ultimi ebrei polacchi a emigrare per sempre.

 

“Il comportamento della polizia, dell’intelligence e dei comunisti fu scandaloso”, dice al Foglio Jan Rydel, docente di Storia all’Università Jagellonica e promotore di una giornata di studi a Kielce 70 anni dopo. Lo scorso 4 luglio il presidente polacco Andrzej Duda ha inaugurato i lavori ricordando “i cittadini polacchi di origine ebraica scampati per miracolo alla Gehenna dell’Olocausto” e trucidati per mano di altri concittadini. Non si trattò di un caso isolato: “In tutta l’Europa orientale”, riprende Rydel, “la fine della guerra coincise con rinnovate violenze antiebraiche”, ma il pogrom del 4 luglio spicca per truculenza. Lo storico tenta di spiegare le ragioni dell’odio attraverso la dura situazione dell’epoca, fra miseria e delinquenza diffuse in una popolazione abbrutita dalla guerra: “Al loro ritorno i pochi ebrei sopravvissuti reclamarono le proprietà che i nazisti non avevano depredato”, come i beni immobili distribuiti fra la popolazione polacca, “suscitando odio anziché solidarietà”.

 


Jan Rydel (immagine di Youtube)


 

Alla violenza seguì la menzogna. La macchina della propaganda si attivò per imputare la strage alle milizie nazionaliste malate di antisemitismo, “per una volta invece estranee al pogrom”. Il regime comunista polacco fece cadere i fatti di Kielce nel silenzio, rotto dagli storici solo dopo l’avvento di Solidarnosc. Oggi il clima è cambiato, assicura Rydel: la popolazione cittadina ha partecipato al ricordo e il presidente Duda, la cui moglie è di origine ebraica, “è molto impegnato su questo tema”. La Polonia di oggi non è un paese più antisemita degli altri, sottolinea l’accademico polacco citando una ricerca israeliana secondo cui ben il 20 per cento dei tedeschi ha pregiudizi antiebraici. Punti di vista. Due settimane dopo le celebrazioni, la ministra polacca dell’Istruzione Anna Zalewska ha declassato a “opinioni” le responsabilità polacche nel pogrom di Kielce e in quello terribile di Jedwabne del 1941 (340 ebrei furono arsi vivi in un granaio).

 

C’è stata rimozione collettiva o no?

 

In un’intervista a Deutschlandradio Kultur, lo storico Jörg Baberowski dell’Università Humboldt di Berlino punta il dito contro la “rimozione collettiva” dell’antisemitismo in Polonia. Chiesa cattolica e Partito comunista “si sono sempre presentati come i veri oppositori del nazismo, per cui solo i tedeschi sarebbero responsabili dello sterminio”. Un discorso tanto più vero per i comunisti, “che nell’antinazismo trovavano la loro principale fonte di legittimazione. Secondo Baberowski, “i vecchi continuano a rimuovere, mentre i giovani si disinteressano di avvenimenti così lontani nel tempo”. Lo storico tedesco sposa la tesi del collega americano Jan Gross, secondo cui i polacchi sono stati ben lieti di aiutare i tedeschi nello sterminio. Per Rydel, che ricorda anche “i moltissimi polacchi ‘giusti fra i popoli’”, i rapporti fra polacchi ed ebrei “non possono essere letti solo alla luce dell’Olocausto”.

 

Al di là delle battaglie storiografiche restano i numeri: “Prima della guerra eravamo più di 3,5 milioni, oggi siamo poco più di 4 mila”, dice al Foglio Artur Hofman, impresario teatrale e presidente delle associazioni sociali e culturali ebraiche di Polonia. Nonostante l’anno scorso a Breslavia una dimostrazione di xenofobi abbia dato fuoco in piazza a un pupazzo raffigurante un ebreo, per Hofman l’antisemitismo non è più un’emergenza in Polonia “e idioti del genere si trovano ovunque nel mondo”. Atti antiebraici potranno ripetersi, “ma la situazione è in continuo miglioramento” osserva, elencando un fiorire di musei, festival, e rassegne teatrali dedicate all’ebraismo polacco con una crescente partecipazione del pubblico. “Da Cracovia a Varsavia, da Breslavia fino a Kalisz l’interesse del pubblico per ‘Il violinista sul tetto’ è sincero”. E questi eventi, conclude, si possono tenere senza massicci spiegamenti di poliziotti, “una cosa impensabile a Londra, Copenaghen o Parigi”. E’ la triste sorte degli ebrei polacchi. Odiati da vivi, rimpianti solo da morti.

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