Matteo Renzi (foto LaPresse)

Appunti diplomatici per leggere il contropiede di Renzi all'Europa

Gianni Castellaneta
Non può sfuggire, nelle parole del premier, un certo richiamo all’opinione pubblica italiana, in gran parte sempre più delusa dalla performance negativa dell’economia ed esasperata dalla continua ondata migratoria che vede nelle coste italiane uno dei principali punti di approdo.

In quest’ultimo periodo, il ricordo dell’esperienza professionale vissuta a Mogadiscio molti anni fa è tornato a farsi vivo nella mente. Quella che un tempo era una città incamminata su un percorso promettente di crescita e sviluppo, oggi è la capitale di uno stato, la Somalia, che praticamente non esiste più dopo essere stato lacerato da anni di guerra civile che lo hanno fatto sprofondare nuovamente nella povertà, nel sottosviluppo, nell’insicurezza. Guardare alla desolante parabola seguita dalla Somalia offre un esempio significativo di ciò che l’Africa è oggi: un continente dotato di enorme potenziale che però è ancora in larga parte inespresso, ostaggio di mille contraddizioni politiche, economiche e sociali.

 

Le immagini della Somalia si ripropongono in questi giorni in cui il premier Matteo Renzi, tra Bratislava dove ha partecipato all’ultimo Consiglio Europeo informale, e New York dove ha preso parte all’apertura della Sessione generale delle Nazioni unite, si è smarcato in modo piuttosto brusco da Angela Merkel e François Hollande per virare con decisione verso il continente africano. Ripercorrere quanto accaduto può essere utile per comprendere come la strategia messa in atto dal premier risponda tanto a esigenze di politica interna, quanto all’interesse nazionale dell’Italia in politica estera.

 


Angela Merkel e François Hollande al Vertice di Bratislava (foto LaPresse)


 

Venerdì scorso, al termine del Vertice europeo di Bratislava, il nostro premier si è rifiutato di tenere la (ormai consueta) conferenza stampa nel formato a tre con gli omologhi francese e tedesco, complice la distanza troppo netta su un capitolo giudicato cruciale dall’Italia come quello della gestione dei migranti e rifugiati giunti in Europa negli ultimi anni. “Il Vertice ha partorito un topolino”, sono state le parole di Renzi, deluso dal fatto che Merkel non avesse accettato impegni più concreti per una condivisione delle responsabilità verso i migranti e per l’adozione di politiche di assistenza più impegnative nei confronti degli stati africani da cui hanno origine i flussi migratori che giungono sulle nostre coste attraverso il Mediterraneo.

 

E’ stato indubbiamente forte lo scalpore suscitato dal fatto che, dopo appena tre settimane, il cosiddetto “spirito di Ventotene” fosse già venuto meno, vanificando le (peraltro già remote) prospettive di rilancio del progetto di integrazione europea.
Passano tre giorni e ritroviamo Renzi a New York, dove come ogni settembre si reca per rappresentare l’Italia all’apertura della sessione annuale dell’Assemblea generale dell’Onu. Al termine di uno degli eventi di contorno, il summit su rifugiati e migranti, dichiara alla stampa che “poiché l’Ue non è stata in grado di dire parole chiare sul tema africano, allora l’Italia farà da sola”. Un altro “schiaffo” contro Bruxelles e Berlino, che denota un’insofferenza ormai conclamata da parte del nostro governo per l’inazione dominante le istituzioni europee su un tema pressante come quello della gestione dei flussi migratori.

 

Come interpretare, dunque, le parole del presidente del Consiglio? Da un lato, non può sfuggire un certo richiamo all’opinione pubblica italiana, in gran parte sempre più delusa dalla performance negativa dell’economia ed esasperata dalla continua ondata migratoria che vede nelle coste italiane uno dei principali punti di approdo. All’alba di una fase che si preannuncia cruciale per la sopravvivenza dell’attuale esecutivo, e che vedrà nel referendum costituzionale un punto dirimente, non si può escludere il deliberato intento di ingraziarsi i cittadini più indignati e antieuropeisti mostrando i “muscoli” alla Germania, sempre più “egemone riluttante” nel voler imporre all’Ue politiche conservative e con poco coraggio nei confronti del futuro.

 

Dall’altro lato, insistere sull’Africa rappresenta indubbiamente una delle principali direttrici della politica estera del governo Renzi. Il premier si è recato già tre volte in visite ufficiali in paesi dell’Africa subsahariana, con la finalità principale di stimolare gli investimenti italiani in paesi chiave quali Angola, Etiopia, Ghana. Non è un caso, dunque, che Renzi insista così tanto sull’Africa in questi giorni tanto più che, come hanno riportato diversi organi di stampa, nella prossima Legge di bilancio dovrebbe confluire anche un cosiddetto “Africa Act”, che sarà finalizzato a stimolare gli investimenti italiani in alcuni paesi di particolare interesse, soprattutto nell’area del Corno d’Africa.

 


Migranti (foto LaPresse)


 

Del resto, l’Italia da mesi ha cercato di fare presente all’Unione europea l’importanza di agire sulle “root causes”, ovvero le cause alla radice, dei fenomeni migratori, favorendo lo sviluppo economico dei paesi maggiormente interessati da questa “emorragia demografica”. E’ nato così il “Migration compact”, recepito dalla Commissione europea e poi trasformato nella “New Migration Partnership” che, nelle intenzioni, dovrebbe mobilitare risorse attraverso un “Piano degli investimenti esterni” annunciato la scorsa settimana da Juncker nel suo discorso sullo stato dell’Unione.

 

Si potrebbe spiegare dunque così il tentativo in “contropiede” di Renzi, finalizzato a far guadagnare posizioni all’Italia in tema di investimenti e cooperazione allo sviluppo nel continente africano. Nonostante la retorica e gli annunci, infatti, il nostro paese è al nono posto per investimenti diretti esteri effettuati nella regione subsahariana, parecchio dietro agli altri principali competitor. Del resto, le risorse destinate dall’Italia all’assistenza pubblica allo sviluppo sono ancora insufficienti, seppure in crescita: di poco sopra lo 0,2 per cento del pil a fronte della cifra dello 0,7 per cento che fu adottata come impegno a cui tendere dai paesi del G8 di Gleneagles. A oggi, solo il Regno Unito si è dimostrato in grado di centrare questo obiettivo.

 

Dare priorità agli investimenti in Africa, in settori nei quali possiamo vantare un vantaggio competitivo come ad esempio l’agricoltura e le energie rinnovabili, è certamente sinonimo di una visione lungimirante e che potrebbe dare nel medio periodo importanti vantaggi non solo in termini di crescita economica (nei paesi destinatari così come in Italia grazie agli affari conclusi dalle nostre aziende) ma anche e soprattutto di stabilità politica e sociale, contribuendo a ridurre i flussi migratori verso l’Europa. D’altro canto, suggeriremmo cautela al premier nel volere utilizzare la questione come un pretesto per aumentare il consenso interno in vista della tappa chiave del referendum.

 

Uno strappo con la Germania significherebbe perdere la possibilità di ottenere quel margine di flessibilità che consentirebbe di varare una finanziaria non restrittiva. Insomma, il rischio che il famoso “mal d’Africa” si trasformi per Matteo Renzi in un ben più fastidioso “mal di testa” è piuttosto concreto. Le prossime settimane saranno fondamentali per constatare se si sarà trattato solamente di una boutade oppure di un effettivo cambio di rotta del governo italiano che allontanerà sempre più Roma da Berlino.