Dilma Rousseff (foto LaPresse)

Addio colonnelli. Ora in Sudamerica sono i giudici a far politica

Maurizio Stefanini
L’impeachment di Dilma Rousseff in Brasile avviene in un clima da Tangentopoli. Poi c’è la “Presa di Caracas” in Venezuela per far pressione sulla Corte suprema e gli interventi giudiziari in Argentina, Cile, Nicaragua. Storia di un “golpe giudiziario” a livello continentale, in cui la magistratura è il vero arbitro.

Roma. Una presidentessa indebolita da moti di piazza e indagini giudiziarie è stata rimossa dal Congresso: così si è concluso l’agosto del 2016 in Brasile, con il voto di impeachment di 61 senatori contro 20 in base al quale Dilma Rousseff è stata costretta a lasciare la carica a favore del suo vice Michel Temer. Un presidente utilizza la magistratura per bloccare un Congresso a lui ostile; la coalizione corrispondente a questa maggioranza in Congresso raccoglie firme per un referendum revocatorio che lo obblighi alle dimissioni; la magistratura rallenta ulteriormente il percorso in modo da far votare non entro quest’anno ma il prossimo, il che eviterebbe presidenziali anticipate e permetterebbe a un presidente cui i sondaggi danno almeno il 65 per cento dei voti contro di farsi succedere da un vicepresidente da lui scelto; l’opposizione convoca un milione di persone a marciare sulla capitale per  far pressione sui tempi del Consiglio nazionale elettorale: così è iniziato il settembre del 2016 in Venezuela, con la “Presa di Caracas” indetta dalla Tavola dell’unità democratica (Mud) contro il governo di Nicolás Maduro. Sono due eventi diversi per molti aspetti. Tra l’altro, mentre il primo è avvenuto in un contesto relativamente pacifico, il secondo minaccia di trasformarsi in un bagno di sangue, dopo che Maduro ha cercato di bloccare la “Presa” arrestando oppositori, licenziando funzionari “antirivoluzionari”, interrompendo vie di accesso e linee di mezzi pubblici, mandando anche in piazza militari armati fino ai denti. Ma, a parte l’essere avvenuti a un ridosso che è sia cronologico che geografico, a parte l’essere collegati dalla propaganda di Maduro in un medesimo complotto, impeachment e “Presa di Caracas” vedono in comune i quattro attori principali, anche se sistemati in sequenze diverse: Presidente-Congresso-piazza-magistratura.

 


Almeno tre di questi attori hanno fatto la storia dell’America Latina fin dai tempi delle indipendenze ottocentesche, quando dagli Stati Uniti fu copiato un modello presidenziale che in realtà a sud del Rio Grande non ha mai funzionato troppo bene. E praticamente fino agli anni 80 del secolo scorso a fare da arbitro era un quarto attore rappresentato dalle Forze armate. La stessa Dilma ha paragonato la sua destituzione al golpe con cui il primo aprile 1964 João Goulart fu destituito dai generali in uno scenario di scontro col Congresso, marce di protesta e rivolte militari. Il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, fu anche quello del ritorno della democrazia in Cile, Paraguay e Panama, gli ultimi paesi del continente ancora dominati da un regime militare. Da allora gli uomini in divisa escono di scena, e per un po’ è l’alleanza di piazze e congressi a far saltare i presidenti. E non pochi: Collor in Brasile nel 1992; Pérez in Venezuela e Serrano in Guatemala nel 1993; Bucaram in Ecuador nel 1997;  Cubas in Paraguay nel 1999; Mahuad in Ecuador e Fujimori in Perù nel 2000; de la Rúa in Argentina nel 2001; Sánchez de Lozada in Bolivia nel 2003; Gutiérrez in Ecuador e Mesa in Bolivia nel 2005. Travolti da scandali e soprattutto dalla cosiddetta “Ondata a sinistra” latino-americana, nelle sue due varianti. Da una parte quella moderata del brasiliano Lula, imperniata su ampie alleanze tra sinistra e partiti o per lo meno ceti moderati, in cerca di una formula di sviluppo socialdemocratico e fatta propria anche nell’Argentina dei Kirchner, nell’Uruguay dei Vázquez e Mujica, nel Cile di Michelle Bachelet. Dall’altra, quella più autoritaria e populista del venezuelano Chávez, che dal punto di vista economico ha però avuto maggiori successi nelle varianti del boliviano Evo Morales, dell’ecuadoriano Rafael Correa e del nicaraguense Daniel Ortega.

 

Ma con la crisi delle materie prime anche quel modello è venuto giù, e simbolicamente ora l’uno-due impeachment di Dilma-Presa di Caracas colpisce proprio i due eredi non all’altezza di Lula e Chávez. Nei paesi “lulisti” le ampie alleanze si sfaldano: una parte dei peronisti vota per Macri; il vicepresidente Temer si rivolta contro Dilma; il Fronte Ampio uruguayano si dilania tra l’ala moderata di Vázquez e quella più radicale di Mujica. Nei paesi “chavisti” i regimi si blindano: all’irrigidimento di Maduro corrisponde il golpe giudiziario con cui Daniel Ortega ha fatto decadere i deputati dell’opposizione.

 

Ma nel caos, comunque, emergono i giudici. La stessa miscela tra inchieste giudiziarie, proteste di piazza e manovre congressuali che ha fatto saltare Dilma già rimosse i due presidenti più sprovveduti di tutta la storia dell’Ondata a Sinistra: Zelaya in Honduras nel 2009 e il vescovo Lugo in Paraguay nel 2012. Ma peggio ancora è andata nel 2015 a un presidente di destra come il guatemalteco Otto Pérez Molina, che è finito pure in galera. Ancora alla presidenza ma assediata da inchieste e marce di protesta è Michelle Bachelet in Cile.

 

Ancora più indicativo è il caso argentino, dove dopo l’elezione di Macri i giudici si sono sì scatenati in inchieste contro Cristina Kirchner e i suoi, ma nel contempo la Corte suprema di giustizia ha bloccato al governo un importante piano tariffario. Nello stesso Brasile le inchieste toccano gran parte del quadro politico, e una volta tolta di mezzo la Rousseff non è detto che il governo Temer riesca a sopravvivere indenne per i due anni che mancano al prossimo voto. Dove la magistratura è indipendente, insomma, si mette a destabilizzare tutti, all’italiana. Dove è sotto controllo, come in Venezuela e in Nicaragua, viene usata come una clava contro l’opposizione. Ma in entrambi i casi, i magistrati sono diventati il fulcro di un nuovo modello, e hanno sostituito le Forze armate nel ruolo di arbitro della vita istituzionale. La lotta politica, in America latina, oggi si fa nei tribunali e nelle alte Corti. Unica eccezione la Bolivia, dove magistratura e opposizione sono egualmente deboli.  E lì la tensione si scarica direttamente tra Morales e la piazza: ne ha fatto le spese la settimana scorsa il viceministro all’Interno Rodolfo Illanes, trucidato nel modo più feroce dai minatori in rivolta.