Usa, cerimonia per 3132 laureati all'Università di Yale (foto LaPresse)

Le tricoteuses sono tornate a Yale

Giulio Meotti
Vetrate distrutte, nuovi nomi, teste che rotolano, paura che abbonda. Una ghigliottina di carta scuote il campus più famoso d’America. Il caso dei coniugi Christakis, cacciati da chi fila con zelo la maglia dell’antirazzismo. Il nuovo vocabolario della rabbia liberal è fatto di “appropriazione culturale”, “microaggressione” e “spazio sicuro”.

Roma. Si chiama Committee to Establish Principles on Renaming e c’è già chi lo paragona al Comité de salut public di robespierriana memoria. E’ la grottesca commissione per rinominare le aule e i palazzi di Yale che non si adeguano ai dettami dell’antirazzismo. E’ voluta dal rettore di Yale, Peter Salovey, dopo il caso del dormitorio del campus intitolato a John Calhoun, laureatosi nella storica università di New Haven e uno dei padri intellettuali della secessione degli stati confederati (a guidare il renaming anche Dante de Blasio, il figlio del sindaco di New York, che risiede nel campus). Nel novembre 2015 manifestazioni contro il razzismo nell’università scossero Yale, scatenando un dibattito interno sulla presenza di simboli e riferimenti al “suprematismo bianco”. Ad aprile, Salovey aveva deciso di mantenere il nome di Calhoun nel dormitorio, privandolo del titolo di “Maestro”. Ora il contr’ordine: Calhoun potrebbe essere sloggiato dalla facciata dell’edificio dopo che quattrocendo docenti hanno firmato una lettera esprimendo la loro insoddisfazione per la decisione. Un pannello di vetro colorato che raffigurava Calhoun è stato già modificato per rimuovere lo schiavo inginocchiato al suo fianco. Due anonimi vetri bianchi ne hanno preso il posto. Poi un lavoratore di colore della locale sala da pranzo ha fracassato un altro pannello di vetro che raffigurava degli schiavi che trasportano cotone. Non è stata sporta denuncia. Sul Wall Street Journal ieri un editoriale paragona la decisione di Yale di rinominare gli edifici a Robespierre e all’Unione sovietica. “Nella Rivoluzione francese rifecero il calendario da zero e rinominarono i mesi dell’anno”, scrive Roger Kimball, direttore della rivista New Criterion. “I sovietici rinominarono città, cancellarono i nomi dei nemici politici dalla memoria storica e vietarono le teorie scientifiche in conflitto con la dottrina marxista”. A Parigi, 1.400 vie cambiarono i nomi di re e santi. Nel calendario, santa Cecilia divenne il giorno della rapa, santa Caterina il giorno del maiale e sant’Andrea il giorno della zappa. I rivoluzionari divisero il tempo in unità da loro ritenute razionali e naturali, introducendo dieci giorni in una settimana. Persino i pezzi della scacchiera furono modificati, visto che un rivoluzionario non avrebbe certo giocato a scacchi con re, regine e alfieri. L’Amherst College ha eliminato il nome di Lord Amherst per le sue vedute poco progressiste sugli indiani d’America. All’University of Missouri c’è una petizione per cacciare lo “stupratore razzista” Thomas Jefferson. Il Washington Post ha stilato il nuovo vocabolario di questa rabbia liberal, fatto di “appropriazione culturale”, “microaggressione” e “spazio sicuro”. Intanto abbonda la paura. Secondo un sondaggio commissionato da Yale, metà degli studenti ha il timore di esprimersi davanti a compagni e professori.

 

La ghigliottina ancora non c’è nel campus più famoso d’America. Ci sono però le denunce anonime, i sit-in e i “trigger warnings” in grado di far rotolare la testa di un malcapitato che finisce sotto la mannaia ideologica. E’ il caso di Erika Christakis, docente a Yale di Psicologia infantile, che aveva osato lamentarsi che l’università era diventata “un luogo di censura e di divieto” dopo la richiesta degli studenti di bandire i costumi “offensivi” di Halloween. Da allora, sia Erika Christakis sia suo marito, Nicholas Christakis, anche lui docente a Yale, sono stati il bersaglio di una crociata rabbiosa di studenti-cacciatori di streghe. Fino a un filmato scioccante in cui circondano Nicholas, gli urlano insulti e ne chiedono le dimissioni, come le tricoteuses sotto la ghigliottina, che sferruzzavano per i loro bimbi mentre cadevano le teste sul patibolo. “Non devi dormire la notte”, “fai schifo”, gli urlano in faccia. I Christakis ricevono email minacciose, studenti rifiutano la laurea dalle loro mani, pochissimi colleghi firmano la lettera di solidarietà, tanto che quando il fisico Douglas Stone  appone la sua viene messo in guardia per non aver tessuto l’elogio della forca: “Sarai il prossimo”. Risultato: Erika e Nicholas si sono dimessi.

 

E’ molto pessimista Donald Kagan, che ha lasciato la Cornell University per Yale nel 1969 di fronte all’inettitudine sulle proteste studentesche: “E’ molto difficile recuperare questa resa, la resa alla paura, alla violenza e alla calunnia”. E a chi fila le maglie dell’intolleranza con obbediente, fervido zelo.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.