San Pietroburgo, il presidente Putin riceve Tayyip Erdogan (foto LaPresse)

Sorrisi e pacche tra Erdogan e Putin celano un Sultano dimezzato

Marco Valerio Lo Prete
Il presidente turco ricatta l’Unione europea sui migranti e ora la Nato blandendo Mosca. Il gas, le sanzioni ma anche le molte debolezze

Roma. Martedì, di prima mattina, la Turchia ha inviato un messaggio intimidatorio al Vecchio continente attraverso il suo ministro per le Relazioni con l’Unione europea. In un’intervista al Financial Times, il giornale più letto nei circoli che contano a Bruxelles, Omer Celik ha definito “impossibile nel breve termine” lo scambio proposto dalla Commissione Ue: modifica entro l’autunno delle leggi anti terrorismo di Ankara, giudicate liberticide, in cambio di una liberalizzazione dei visti per i 79 milioni di cittadini turchi. Addirittura Celik ha rilanciato: senza liberalizzazione dei visti, Ankara non si sentirà più in dovere di rispettare gli impegni presi nella scorsa primavera per arginare il flusso di migranti in partenza dalle sue coste.

 

Dopo poche ore, sempre martedì, la leadership turca ha inviato un secondo messaggio ricattatorio, questa volta alla Nato. Gli Stati Uniti non dovrebbero “sacrificare l’alleanza con la Turchia per colpa di un terrorista”, ha detto il ministro della Giustizia Bekir Bozdag riferendosi al predicatore Fethullah Gülen, fuggito in America nel 1999 e considerato l’ispiratore del tentato golpe del 15 luglio ad Ankara. Il tutto mentre il presidente Recep Tayyip Erdogan – uscito dai confini del suo paese per la prima volta da quando ha avviato il radicale repulisti contro decine di migliaia di sospetti golpisti – volava a San Pietroburgo per stringere le mani di Vladimir Putin. “Vogliamo riportare le relazioni con la Russia al livello pre-crisi, o persino a un grado più elevato”, ha detto Erdogan in piedi al fianco dell’omologo russo che aveva dichiarato arcinemico solo alla fine del 2015. Di solito, però, chi ricatta si trova in una posizione di forza. Erdogan, invece, rivela crescenti debolezze, osservano gli analisti sentiti dal Foglio.

 

Finché a essere ricattata è l’Unione europea, con le sue innate difficoltà a trovare una posizione politica comune e con ancora addosso i postumi della crisi economica, Erdogan può comprensibilmente apparire minaccioso. Martedì però, mentre il presidente turco sorrideva al fianco di Putin, il pensiero correva automaticamente allo scorso 24 novembre, quando Ankara tirò giù un caccia militare russo che sorvolava il confine siriano. Seguirono mesi di tensioni: accuse verbali, sanzioni economiche e addirittura venti di guerra. Perché Erdogan d’improvviso sembra voler archiviare tutto? Martedì addirittura si è detto pronto a rilanciare il progetto di gasdotto Turkish Stream per facilitare l’esportazione di idrocarburi russi verso l’Ue, mentre un Putin gongolante diceva che è il momento di ripristinare i voli commerciali dei due paesi e di ritirare progressivamente le sanzioni imposte. C’è un primo livello di lettura, quello del ricatto rivolto alla Nato appunto. “Culturalmente e ideologicamente, con Erdogan la Turchia aveva già smesso da tempo di sentirsi una marca di frontiera dell’occidente. Se non fosse stato chiaro prima, la benevola neutralità degli Stati Uniti rispetto al tentato golpe dello scorso 15 luglio ci ricorda cosa si pensi a Washington di questa china”, dice al Foglio Germano Dottori, cultore di Studi strategici alla Luiss di Roma. “Se la Turchia slittasse geopoliticamente ancora più a est, l’America vedrebbe compromessi i risultati della normalizzazione dei rapporti con l’Iran. Sarebbe infatti vanificato il tentativo di portare gas persiano nel Mediterraneo per controbilanciare le forniture russe e quello di stabilire un equilibrio di potenza in medioriente che possa favorire un progressivo disimpegno americano dall’area”. Dottori però ritiene che, complice anche la capillare repressione post golpe che ha “naturalmente rimpicciolito la base sociale di consenso su cui poggia Erdogan”, oggi il governo turco sia “molto meno forte di quello che crede. Il tentativo di ricucire con Mosca è effettivamente una rivendicazione di autonomia e sovranità da parte di Erdogan, riedizione su scala atlantica della strategia del ricatto usata con Bruxelles, ma questa volta assomiglia a un bluff pericoloso per lo stesso presidente turco”. “Questo ragionamento – conclude lo studioso della Luiss – mi fa credere che quello a cui abbiamo assistito lo scorso 15 luglio potrebbe non essere l’ultimo tentativo di far capitolare Erdogan con ogni mezzo”.

 



 

Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, sostiene che al netto della retorica baldanzosa che ha preceduto il viaggio di Erdogan a San Pietroburgo, “il presidente turco non abbia chissà quali alternative”, perché “al di là delle apparenze, la Turchia è isolata”. Ergo, quello del leader di Ankara è “una sorta di colpo di teatro, per nascondere questa realtà”. Si prenda per esempio il dossier siriano: “Dopo l’intervento militare russo, Assad è più in sella a Damasco oggi di quanto non lo fosse uno o due anni fa, nonostante tutti gli sforzi che Ankara ha messo in campo per disarcionarlo. Come si pensa che reagirebbero i gruppi islamisti sostenuti o comunque tollerati dalla Turchia, come al Nusra o Stato islamico, nel caso di un cedimento eccessivo di Erdogan verso la Russia?”. Senza contare il fatto che Putin, come ha scritto martedì Lilia Shevtsova, fellow del think tank americano Brookings Institution, “ha già dimostrato di possedere una certa esperienza nel montare e condurre due cavalli in direzioni opposte”: come dire che poi, di fronte a un’ipotetica e sopravvenuta intesa con gli Stati Uniti sulla situazione complessiva siriana, il presidente russo non avrebbe problemi a scaricare il neoalleato. “D’altronde Erdogan non può nemmeno avvantaggiarsi della sponda costituita dal governo sciita di Teheran, con il quale invece sempre Putin dialoga”, chiosa Parsi.  

 

Secondo lo studioso italiano, perfino il ricatto della repubblica fondata da Mustafa Kemal Atatürk verso l’Europa è spuntato: “Denunciare l’accordo sui migranti farebbe male a noi europei che non sapremmo gestire l’improvviso flusso in entrata di centinaia di migliaia di persone, certo. Ma che beneficio porterebbe ad Ankara? La Turchia non otterrebbe comunque le facilitazioni su visti e dintorni che stanno a cuore ai suoi imprenditori, e inoltre perderebbe definitivamente un altro interlocutore”. Per questo Parsi è decisamente scettico su ogni lettura trionfalistica del recente attivismo di Erdogan in politica estera: “Con questo suo andamento rapsodico, Erdogan piuttosto conferma la seguente impressione: sempre più il futuro del suo paese dipenderà da una costellazione di eventi il cui svolgimento è però tutto nelle mani di attori esterni”.

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