Quando nel 2009 Rio de Janeiro vinse l’assegnazione della sede olimpica, il Brasile era quel miracolo di sviluppo economico e redistribuzione di denaro ai poveri senza tassare i ricchi (foto LaPresse)

Nella crepa del Brasile

Angela Nocioni
S’aprono le Olimpiadi a Rio, gli zoom dei reporter sono sui fili penzolanti e i lavori da finire. Dettagli su chi fa gli onori di casa, su dov’è finita Dilma e sull’azzardo di Lula.

In un Brasile sotto sopra – con un governo provvisorio debolissimo, una presidente eletta (Dilma Rousseff) sotto processo di impeachment, un presidente sostituto (Michel Temer) che nessuno vuole, cantieri aperti ovunque e operai al lavoro per inaugurare in corsa linee metropolitane lontane dall’essere terminate – venerdì allo stadio Maracanà cominciano le Olimpiadi.
Quando, nel 2009 Rio de Janeiro vinse l’assegnazione della sede olimpica e l’allora presidente Lula da Silva sventolava trionfante insieme a Pelè la bandiera verdeoro “Ordem e Progreso”, il Brasile era quel miracolo di sviluppo economico e redistribuzione di denaro ai poveri senza tassare i ricchi, ritratto dall’Economist in copertina con la statua del Cristo Redentor, simbolo di Rio, che decollava come un missile terra-aria verso il cielo. Addio sogni di gloria.

 

Il boom da tempo s’è sgonfiato, quest’anno il prodotto interno lordo farà un salto all’indietro di un altro 3 per cento secondo il Fondo monetario internazionale, la disoccupazione vola sopra l’11 per cento (nel 2007 si era sfiorato lo zero per cento) gli ex poveri sono pieni di rate da pagare e l’ex presidente Lula da Silva, il protagonista politico degli ultimi vent’anni brasiliani, rischia l’arresto. E’ lui, nonostante la delusione per lo sviluppo a metà e gli scandali giudiziari nell’azienda del petrolio statale Petrobras per il giro di finanziamenti illeciti alla politica, il candidato favorito alle presidenziali del 2018. Il suo mito politico e personale non crolla, la metà del paese crede ancora sia lui l’unica carta possibile per rimettere in piedi il Brasile, ma è difficile che arrivi indenne al 2018. Troppe procure della Repubblica sono al lavoro sui sovrapprezzi del 3 per cento pagati dalle imprese dell’indotto Petrobras per ottenere lavori in appalto. Troppi fascicoli aspettano d’essere aperti col suo nome.

 


Lula da Silva (foto LaPresse)


 

Lula, lambito fin dal 2003, anno della sua prima elezione alla presidenza, da numerosi rivoli d’inchieste e finora salvato dal silenzio dei compagni di partito (il Pt, Partito dei lavoratori) finiti in galera e lì rimasti a lungo pur di proteggerlo negli interrogatori in cui vengono caldamente invitati a salvarsi indicandolo come mandante di reati di corruzione, il 28 luglio ha denunciato per abuso di potere al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite a Ginevra, il magistrato simbolo della Mani pulite brasiliana, Sergio Moro (che dice di ispirarsi ad Antonio Di Pietro e studia Piercamillo Davigo) e i procuratori dell’Operazione Lava Jato, l’inchiesta su Petrobras. Le aule di tribunali, e soprattutto le cronache televisive che ne ricostruiscono con grande enfasi le attività, sono in questo momento il teatro di una feroce guerra politica e istituzionale. Pezzi di magistratura contro pezzi di Parlamento e di governo. Un grande tema di discussione è l’uso dei collaboratori di giustizia. Gli avvocati difensori brasiliani su questa questione sono scatenati. Hanno da tempo denunciato in pubblica lettera firmata da 150 grandi avvocati “metodi da Inquisizione” nella inchiesta di cui è titolare il giudice Sergio Moro. La lettera richiama “con urgenza il potere giudiziario” a “una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione”. Come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle?

 

L’impalcatura dell’inchiesta su Petrobras è basata sulle dichiarazioni di arrestati che accettano di collaborare con gli inquirenti spiegando quello che in Brasile chiamano “lo schema”, il meccanismo della corruzione. Poi, in alcuni singoli casi, sono saltate fuori delle prove, ma a tenere in piedi l’inchiesta sono le collaborazioni, cioè la confessioni di reati commessi, di solito, non da chi parla, ma da qualcun altro. Sostanzialmente la collaborazione consiste nell’indicare il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto in prima pagina come fosse un reo confesso. Gli avvocati lamentano sia scomparso il rispetto dell’habeas corpus. Scrivono che “la prigione preventiva è usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione”. “Un giorno delle persone sono incarcerate per la forza di decisioni che affermano l’imprescindibilità della detenzione, dato che, se messe in libertà, queste persone rappresenterebbero un gravissimo rischio all’ordine pubblico – scrivono – il giorno dopo le stesse persone firmano un accordo di delação premiada e sono rimesse in libertà. Di colpo, con una bacchetta magica, tutta l’imprescindibilità della loro detenzione svanisce”. Questo serve a farsi un’idea dell’aria che tira nella politica brasiliana mentre le telecamere delle tv di ogni angolo di mondo accorse a Rio zoomano sulle crepe di un villaggio olimpico di cartapesta e si stupiscono della fede cieca nella corsa dell’ultimo minuto con cui è arte nazionale contare di risolvere quasi ogni cosa.

 

Se Lula è nel mirino, la sua ex protetta Dilma Rousseff è già stata impallinata da un pezzo. Allontanata per sei mesi dal potere per un illecito amministrativo, vedrà il suo ex vicepresidente ed arcinemico Michel Temer, che ha guai i vista con la magistratura ben più pesanti dei suoi, fare gli onori di casa al Maracanà mentre lei aspetta a casa la conclusione del processo di destituzione a suo carico attesa per dopo Ferragosto e rimandata a fine mese dal Tribunale supremo d’accordo col Senato. Su richiesta del Comitato olimpico internazionale che già combatte con fili elettrici penzolanti, alloggi per gli atleti fatiscenti anche se non ancora inaugurati e non ne vuol sapere di assistere a un terremoto politico nel bel mezzo della cerimonia di chiusura dei Giochi.

 

Oltretutto nessuno nasconde che il processo a Dilma è squisitamente politico e tutti si sono accordati almeno sul fatto di celebrarlo a Olimpiadi concluse.

 


Dilma Rousseff  (foto LaPresse)


 

Di cos’è accusata Dilma? Di aver compiuto un ritocco nella manovra fiscale del 2015. Di essere ricorsa a una banca pubblica per far prestare al governo dei soldi, senza passare per il voto parlamentare. Una scorciatoia banale, comunissima, strapraticata da qualsiasi governo del mondo  all’ora di far quadrare i conti pubblici, si sgolano tutti i giuristi filo Pt (Partido dos trabalhadores, partito dei lavoratori, al governo del Brasile dal 2003). Si tratta di decreti per 27.330 milioni di dollari. Secondo l’accusa quei soldi non erano a disposizione dell’esecutivo che, senza passare per il Parlamento, se li procurò ritardando un pagamento a una banca pubblica. Dilma li ha poi restituiti, ma non avrebbe dovuto farseli dare perché la legge vieta al governo di prendere in prestito soldi da una banca pubblica senza previo assenso parlamentare. “Pedalata fiscale” si chiama, in gergo, questa mossa.

 

Un piccolo reato amministrativo, certo non penale, ma nemmeno di responsabilità politica, dicono i difensori di Dilma. Un ritardo nei pagamenti di un governo non equivale a un prestito, dice lei. Fatto sta che in Brasile qualsiasi atto compiuto contro “l’uso legale del denaro pubblico” è reato. Quindi tecnicamente era possibile trascinare Dilma verso il processo di destituzione. La di lei ostinazione a non riconoscere mai in tempo gli errori fatti, la rigidità teutonica con cui si mostra in pubblico e la difficoltà oggettiva del dover gestire la disillusione di un paese di entusiasti cronici che detestano tornare con i piedi per terra, hanno fatto il resto. Comunque vada l’impeachment, Dilma è politicamente ormai uno straccio. Solo in apparenza va meglio al suo nemico, Michel Temer, quello che tutto il Pt chiama ormai soltanto “O traidor”. Il governo messo su in fretta e furia (tutti ministri rigorosamente bianchi) non gli è riuscito benissimo. Pur di non crollare al primo passo l’esecutivo è rimasto fermo e aspetta la fine dell’impeachment per varare quelle misure economiche impopolari che ritiene irrimandabili. E il suo presidente non aiuta a renderlo più simpatico. Settantacinque anni e una faccia grigia molto poco brasiliana, Temer aggiunge alla sua nota mancanza di carisma anche una discreta serie di figuracce collezionate negli ultimi giorni. Per esempio quella della settimana scorsa, quando ha allertato l’intera stampa nazionale perché sarebbe andato la mattina a prendere il figlioletto seienne, Michelzinho, a scuola. Se per favore mi coprite mediaticamente l’evento, grazie.

 


Michel Temer (foto LaPresse)


 

Peggio ancora sta messo l’uomo che ha aiutato Temer a fare lo sgambetto a Dilma, l’ex presidente della Camera Eduardo Cunha. Cunha (come Temer, del Pmdb) è stato deposto e rischia davvero la galera a causa di una lunghissima lista di accuse che vanno dalla corruzione alla truffa. E’ stato Cunha l’evangelico a orchestrare il voto per il via libera all’impeachment di Dilma Rousseff. Tra i tanti affari di Cunha c’è anche il business di Dio in Internet. Jesus.com, facebookjesus.com.br, facejesusbook.com.br, jesusyahoo.com.br. Tutta roba sua, 287 nomi di siti internet sono registrati a suo nome, tutti religiosi, 154 contengono il nome Jesus. La sua militanza dentro le chiese evangeliche ha costruito prima una carriera politica e poi un impero economico. Anche otto delle sue auto di lusso sono a nome di una società che si chiama Jesus. Anche la Porsche Carrera di sua moglie. Ha serissimi guai per conti segreti in Svizzera in cui, l’accusano gli inquirenti sventolando documenti firmati come prova, avrebbe nascosto milioni di dollari rubati a Petrobras. Alla “Folha de Sao Paulo” lui ha detto di non essersi accorto di aver ricevuto quattro anni fa un milione e trecentomila franchi svizzeri nel suo conto.

 

Cunha è stato l’uomo chiave di questa fase convulsa della politica brasiliana grazie al piccolo esercito che ha a disposizione, l’intera pattuglia dei deputati evangelici, 75 soldatini. Possono sembrare pochi in una Camera di 513 seggi (il Pt, partito di governo, ha 64 deputati), ma giocando di sponda con ex militari ed estrema destra, riescono a condizionare con molta efficacia i lavori parlamentari. E trovano preziosi alleati anche a sinistra. Perché nessuno, nel Brasile che fu cattolico e da anni è l’Eldorado delle chiese elettroniche importate dal nord America, può permettersi di far politica ignorando il potere dei predicatori che spopolano nelle favelas, finanziati da fiumi di dollari: un po’ in arrivo da fedeli negli Stati Uniti, un po’ dai narcos locali. Lo sa bene Dilma che per farsi rieleggere l’ultima volta ha dovuto riceverne alcuni, tenerli buoni, anche fingere di raccogliersi in preghiera con loro. E obbligarsi a digerire un presidente evangelico alla Camera. Si è visto poi con quali risultati.

 


Eduardo Cunha (foto LaPresse)


 

Ha dovuto, perché nonostante il dibattito prima delle ultime elezioni politiche sia stato giocato tutto a sinistra sui temi imposti dalla nuova classe (quasi) media degli ex poveri che chiedevano un avanzamento dei diritti sociali, il Parlamento uscito dalle urne è risultato il più conservatore degli ultimi venti anni. Mai eletti tanti ex colonnelli, guide religiose e portavoce vari della destra agraria come alle ultime politiche. Aumentati del 30 per cento ex poliziotti e ex militari tra gli eletti, tutti schierati in favore della giustizia fai da te, coccolati dalla lobby delle armi. A chi hanno rubato il posto? Ai sindacalisti, si direbbe a guardare i numeri, passati da 83 a 46. Gi evangelici hanno infilato militanti fedeli ovunque. A loro si deve il successo improvviso di preferenze per personaggi di quarta fila del Partito progressista (Pp) che, nonostante il nome, difende un’idea molto conservatrice della società . A Rio de Janeiro, per esempio, i voti degli evangelici hanno gonfiato il risultato del deputato più votato: Jair Bolsonaro (Pp) ha ottenuto 460 mila voti, quattro volte quelli che prese nel 2010. Il suo cavallo di battaglia è l’ostracismo contro gli omosessuali.

 

Cunha è stato anche il padrino della leggina messa a punto dalla lobby Dio and company perché le chiese possano accedere direttamente al Tribunale supremo per impugnare leggi da modificare a loro immagine perché non “interferiscano né direttamente né indirettamente nel sistema religioso o nel culto”. Lui ha curato il progetto di legge perché le coppie gay perdano lo status di matrimonio a tutti gli effetti e non abbiano così diritti in materia ereditaria, custodia dei figli e assicurazioni sanitarie. La santa alleanza tra nuovi religiosi fanatici e vecchi poteri conservatori ha formato un asse tra innamorati delle vacche, delle pallottole e della bibbia, un potere fatto di portaborse di latifondisti, lobby delle armi e credenti esaltati.

 

Il Pt dell’ex presidente Lula non ha saputo tenere a bada Cunha perché mai come in questa legislatura ha avuto bisogno dei voti avvelenati del suo partito, il Partito del movimento democratico brasiliano, il Pmdb, il partito del governo a tutti i costi e con chiunque. Il Pmdb, fondamentale ago della bilancia del sistema politico brasiliano, non presenta mai un candidato presidenziale proprio, però governa sempre. O si allea con il Pt o si allea con il Psdb, dipende da chi vince, lo decide sempre dopo il risultato. Mai prima. L’ultima volta si è schierato invece con la Rousseff fin dal primo turno. Ha una capillare presenza sul vastissimo territorio brasiliano. E’ riuscito ad imporre Temer come secondo, ed era stata una gran vittoria. Ora se lo ritrova presidente e non sa cosa farsene perché al Pmdb serve potere da amministrare nell’ombra, non una fascia presidenziale da indossare in mondovisione.