Il primo ministro libico Fayez Serraj (foto LaPresse)

L'Italia è nuda di fronte alla guerra

Redazione
Il nostro paese ora mette a disposizione le basi per i blitz contro lo Stato islamico in Libia. Ma perché il governo Serraj ha chiesto aiuto a Washington e non al suo partner più vicino? Riflessioni su una resistenza ideologica.

Milano. Per Paolo Gentiloni “è molto positivo” che gli americani abbiano deciso di intervenire contro lo Stato islamico in Libia, il ministro degli Esteri italiano si augura che la missione sia “risolutiva” e tiene a precisare: “La cosa che gli italiani devono sapere è che si tratta di interventi mirati contro le posizioni di Daesh attorno a Sirte, città costiera diventata la roccaforte di Daesh in Libia”. La fanno gli americani, insomma, la guerra, l’Italia è disposta a far partire gli aerei dei blitz da Sigonella – che sarebbe un gran contributo, in termini almeno di costi: la Giordania, da cui sono partiti i primi velivoli, è ben più distante – ma “il lavoro sporco”, quello denunciato anche dai nostri “boots on the ground” libici, le unità di Misurata, è stato finora esclusiva degli americani che, nonostante le loro ritrosie, restano gli unici in grado di rispondere a una richiesta di aiuto da parte di un governo, quello di Fayez Serraj, che pure è stato voluto, sostenuto e accompagnato dall’intera comunità internazionale.

 

Il conflitto libico su cui l’Italia – con la Francia – ha investito grandi risorse diplomatiche e militari, con un impegno speciale visti gli interessi italiani e la volontà di guidare una missione di pacificazione essenziale per il nostro paese – per via della minaccia terroristica e di quella dei migranti (per non parlare di quella energetica) – è una guerra per procura, anzi per quel che ci riguarda per doppia procura. Sul terreno combattono le katibe di Misurata, il braccio armato del governo di Tripoli, le uniche in grado di garantire quella credibilità che a Serraj fugge dalle mani, a causa dell’aggressività di altri gruppi e leader che gli contendono il potere, e a causa della sua natura di “premier voluto dagli stranieri”. Soltanto ora Serraj si è recato, per la prima volta, nel centro di comando che gestisce le operazioni a Sirte, per ribadire che l’intervento americano è temporaneo e mirato, la Libia la salveremo noi – obiettivo che in realtà le milizie di Misurata non riuscivano a centrare. Prima di questa svolta, lo stesso premier faceva fatica a dare all’operazione a Sirte la copertura politica necessaria, e anzi la sua leadership si indeboliva: la richiesta agli americani è stata determinata proprio dalla necessità di confermare che l’unico interlocutore plausibile, in Libia, è lui.

 



Il primo ministro libico Fayez Serraj (foto LaPresse)


 

Ma appunto: Serraj è andato dagli americani. Non dagli italiani o dai francesi o dagli inglesi, che pure hanno personale che si muove nel paese, che pure hanno avuto un mandato anche piuttosto brusco da parte di Washington, un mandato di responsabilizzazione su cui Barack Obama ha insistito con toni invero poco amichevoli: non più tardi di qualche mese fa, ci ha dato di “freerider”, di scrocconi. Gli inglesi hanno fatto sapere già ieri che un ulteriore coinvolgimento, se non prettamente logistico, non è previsto: sono già impegnati in Siria e Iraq, e hanno la Brexit a cui pensare. Per i francesi la faccenda è più complicata: quando un loro elicottero è stato abbattuto – con tre soldati a bordo, morti – nei pressi di Bengasi, è diventata palese la strategia “binaria”, per usare un eufemismo, messa in pratica da Parigi. Gran sostegno a Tripoli, ma anche un aiuto consistente alla Cirenaica, dove spadroneggia il generale Haftar, che è considerato – a ragione – uno dei principali ostacoli alla legittimazione del governo di Serraj. In quell’occasione, il premier libico aveva dovuto disconoscere pubblicamente la presenza dei francesi a Bengasi, affermando che Parigi non si era “coordinata” con lui. Ormai l’imbarazzo non poteva essere eliminato, ma come gli inglesi (anzi, molto di più), la Francia ha un ruolo di prima linea in Siria e in Iraq e, con i continui attacchi jihadisti sul proprio territorio, non fa che ripetere quanto sia necessario estirpare lo Stato islamico dalle sue roccaforti a ogni costo.

 

Il nostro governo si è impegnato in prima linea per l’istituzione del governo di Serraj, ha ospitato vertici pubblici e riunioni private, diplomatiche e militari, ha ottenuto la leadership della gestione della crisi libica ma di fronte alla guerra – un’escalation della “no boots war”, come la definisce il sito DefenceOne – si muove per piccoli passi. çe richieste di utilizzo della base di Sigonella e anche di quella di Aviano paiono finalizzate: esiste un patto di solidarietà tra l’Italia e gli Stati Uniti, in seguito alla risoluzione dell’Onu 2259 del dicembre scorso, che prevede assistenza militare in Libia nel contrasto allo Stato islamico, ma se il successo diplomatico di quella risoluzione era stato grandemente celebrato, il corollario militare – inevitabile, imprescindibile – viene per lo più tralasciato.

 

Gli editorialisti e i commentatori italiani chiedono già spiegazioni di questa guerra non dichiarata, dimenticando che appunto le premesse di questo intervento – di cui tra l’altro l’operazione Odyssey Lightning appena iniziata è la fase finale – erano già scritte. L’opinione pubblica italiana, si sa, è straordinariamente contraria a ogni guerra, pur continuando a pretendere sicurezza interna, come se i due elementi non fossero intrecciati e conseguenti, ed esiste anche la paura che, mettendosi in prima fila, il nostro paese diventi obiettivo della rappresaglia dello Stato islamico, come è accaduto in Francia. E’ una paura piuttosto insensata: il ministro Paolo Gentiloni compariva nell’ultimo video dello Stato islamico come bersaglio da colpire, l’Italia infedele e traditrice è già ampiamente nel mirino. La neutralissima Germania è appena stata colpita dai lupi solitari non così solitari dello Stato islamico. Siamo tutti obiettivo, anche se stessimo fermi, muoversi semmai significa provare a rendere il Califfato meno pericoloso, a sentirci così più al sicuro.