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In Libia è cominciata la guerra

Paola Peduzzi
L’America apre il terzo fronte di guerra contro lo Stato islamico e bombarda Sirte su richiesta del governo Serraj. I “boots on the ground” di Misurata sotto pressione: troppe perdite. Nessun coinvolgimento dell’Italia (per ora) – di Paola Peduzzi

Milano. L’America ha aperto ieri in Libia il suo terzo fronte di guerra contro lo Stato islamico, dopo la Siria e l’Iraq. Il governo libico di Fayez Serraj ha chiesto aiuto agli Stati Uniti per sradicare il gruppo di al Baghdadi a Sirte, e il presidente Barack Obama ha dato il suo consenso per una serie di strike mirati che continuerà almeno fino a che la roccaforte non cadrà. Non è la prima volta che gli americani intervengono in Libia, ma è la prima volta che il governo voluto e sostenuto dalla comunità internazionale chiede espressamente a Washington di colpire il gruppo di al Baghdadi – la richiesta è arrivata venerdì scorso – e che gli Stati Uniti danno il loro consenso. I partner della coalizione internazionale contro lo Stato islamico – di cui fa parte anche l’Italia – sono stati informati delle operazioni nella serata di domenica e ieri mattina: fonti del Foglio confermano che non c’è alcun coinvolgimento delle forze italiane nella missione americana, né militare né di intelligence. Gli aerei che già ieri mattina hanno iniziato a colpire Sirte sono partiti da unità navali nel Mediterraneo, in particolare dalla nave d’assalto Wasp – ha detto il portavoce del Pentagono – in prossimità della Libia. L’operazione è gestita dal comando americano in Africa, e comprende tre fasi, secondo uno schema che è già stato collaudato in Iraq e Siria: si raccolgono le informazioni sul terreno, si stilano i target e si colpiscono – quest’ultima fase si chiama Operation Odyssey Lightning (secondo fonti del Foglio le informazioni sul terreno sono fornite dai militari libici).

 


Il primo ministro libico Fayez Serraj (foto LaPresse)


 

L’assalto a Sirte è una di quelle storie di guerra che meglio spiegano come si combatte oggi il terrorismo. Sirte è diventata la roccaforte dello Stato islamico in Libia nell’ultimo anno: sono arrivati molti combattenti stranieri soprattutto da altri paesi africani, ma la città ha fatto in parte anche da rifugio ai miliziani che scappavano dai bombardamenti internazionali in Siria e Iraq. Sirte è oggi, come si dice, il “paradiso jihadista” della Libia, anche se il termine paradiso non ha nulla a che vedere con la vita quotidiana delle città in mano allo Stato islamico, che come si sa è fatta di indigenza, punizioni e morte. Circa due mesi fa è partita la grande offensiva del governo di Tripoli – con la supervisione delle forze internazionali che operano in Libia per garantire la sopravvivenza del governo Serraj – per riconquistare Sirte: in assenza formalmente di forze di terra straniere, il ruolo dei “boots on the ground” è stato affidato alle katibe di Misurata – quelle per intenderci che uccisero l’ex rais Muammar Gheddafi, che a Sirte era nato: un po’ come è accaduto con i curdi in Iraq. Le truppe di Misurata sono considerate il braccio armato del governo di Tripoli, le uniche in grado di garantire fedeltà a Serraj e forza sul campo, oltre a una certa contiguità territoriale con Sirte che ha permesso i trasferimenti logistici che hanno sostenuto l’offensiva fino ad adesso. Non va dimenticato che a est del paese, a Bengasi, governa il generale Haftar, che non riconosce il governo di Tripoli, che lavora a un’autonomia di fatto e che ha a lungo cercato di intestarsi la guerra contro lo Stato islamico per poter poi marciare, con l’onore della vittoria, verso Tripoli. Secondo molti report, a Bengasi erano presenti anche forze internazionali: i francesi sono stati costretti ad ammetterlo quando, due settimane fa, è stato abbattuto un loro aereo con a bordo tre soldati. L’intervento americano a favore di Serraj serve anche per arginare le ambizioni del generale Haftar.

 

All’inizio di giugno, Sirte sembrava sul punto di cadere: il portavoce della missione, il 9 giugno, dichiarò – sarebbe meglio dire: azzardò – che “in due giorni” l’operazione sarebbe stata conclusa con un successo. Buona parte della città era stata riconquistata, lo Stato islamico aveva subìto grosse perdite, la liberazione era a un passo, ma quell’ultimo passo si è rivelato difficoltoso, anzi, impossibile. Quell’ultimo miglio era troppo costoso: all’inizio della missione erano coinvolti circa seimila uomini delle katibe di Misurata, ora si registrano 354 morti e millequattrocento feriti. Le richieste di armi e munizioni sono state assecondate con riluttanza, le lamentele delle forze di Misurata sono diventate insistenti, come ha raccontato sul Foglio Daniele Raineri: le milizie si sentivano poco sostenute dal governo di Serraj, che non parlava mai della missione in pubblico, non forniva la copertura necessaria all’operazione per non parlare dell’assenza di enfasi minima per motivare i soldati. Più in generale, si sentivano abbandonate nel ruolo di “boots on the ground”, tanto pericoloso, senza il sostegno militare e politico necessario. E Sirte non cadeva.

 


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A oggi la roccaforte dello Stato islamico ancora non è stata liberata, ed è per questo che Serraj ha chiesto l’aiuto del Pentagono. Si tratta dello stesso schema adottato contro il gruppo di al Baghdadi anche in Iraq e in Siria, come ha precisato anche il Pentagono, provando a fornire allo schema una dignità di strategia: le truppe a terra sono locali – con obiettivi finali settari, cioè spesso discordanti tra loro, e un occhio perennemente rivolto al dopo, alle logiche di potere che prevarranno una volta che lo Stato islamico sarà anche parzialmente scacciato – e gli americani forniscono la copertura aerea indispensabile per portare a termine le operazioni militari. Senza questo sostegno, i “boots on the ground” messi in campo di volta in volta nei diversi paesi non riuscirebbero a sostenere la battaglia da soli.

 

Il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato islamico in Libia dimostra innanzitutto una cosa: senza gli americani vincere una guerra non è possibile (e anche così, l’esito è tuttora incerto). Come è noto, anche l’Amministrazione Obama è riluttante nei confronti della guerra, si muove per blitz mirati e pretende la responsabilizzazione degli attori locali. Ma come ripetono molti esperti da tempo: rimandare una guerra oggi significa doverla fare domani, con molti più mezzi.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi