Hillary Clinton terrà questa sera il discorso di accettazione della nomination (LaPresse)

Obama usa i cavalli di battaglia dei repubblicani e regala a Hillary una travolgente performance oratoria

Se Clinton vincerà le elezioni, la serata di ieri sarà ricordata a lungo come quella della svolta del Partito democratico verso il centro.

E alla fine è arrivata anche lei sul palco di Philadelphia, con il vestito blu tutto abbottonato, un sorriso che non finisce più, abbracciata a Barack Obama che le ha appena regalato una delle più travolgenti performance oratorie della sua carriera, liberamente ispirata al se stesso di dodici anni fa, quando alla convention di Boston fece un discorso di calibro e profondità eccezionali che lo precipitò immediatamente sul taccuino degli osservatori nella colonna dei giovani che avrebbero fatto strada. Si sa poi com’è andata a finire. Hillary Clinton ha deciso di dare a Obama collocazione e spazio di cui normalmente i presidenti alla fine del secondo mandato non godono durante la convention del partito. Parlare dopo il candidato vicepresidente – peraltro un oratore di basso profilo – e con un discorso più lungo di quello principale della sera prima, in questo caso pronunciato da un ex presidente che è pure il marito della candidata, è irrituale, perché la circostanza impone di guardare al futuro, non al presente che sta scivolando via. Ma a Obama spettava il particolare compito di inserire l’originalità di Hillary dentro la continuità del progetto democratico di cui Obama è l’iniziatore, doveva intonare il tema del lavoro iniziato ma che deve essere portato avanti, la visione ideale delineata ma che necessita di uno sforzo senza fine per essere tradotta nella realtà. Più che tessere le lodi specifiche di Hillary, Obama ha intonato il peana del loro progetto democratico comune. “L’America che conosco è piena di coraggio, di ottimismo e di genialità”, ha detto il presidente, mettendo in contrasto la visione aperta e speranzosa con quella oscura e tremebonda di Donald Trump, che a Cleveland ha fatto vedere qualcosa “che non era particolarmente repubblicano, e di certo non era conservatore”, ma è l’esibizione di un’idea “profondamente pessimista” articolata da un “demagogo nostrano”. Il termine “homegrown” usato da Obama ricorda quello che si applica ai terroristi radicalizzati sul suolo domestico. L’evangelica della “città sulla collina” cara a Ronald Reagan si scontra con la “divisa scena del crimine” di Trump. E qui si trova l’aspetto più importante di un discorso che non è appena il traino di un ottimo oratore alla collega che si candida a succedergli.

 

Obama s’è avventato come un falco sull’eredità conservatrice. Se Hillary a novembre vincerà le elezioni, quella di ieri sera rimarrà scolpita nella storia come la serata in cui il Partito democratico ha svoltato verso il centro, facendo il grande sacco della mobilia repubblicana lasciata sguarnita da un partito svuotato della sua identità: l’eccezionalismo, la grandezza, l’insistenza sulla Costituzione e i documenti fondativi, la città sulla collina: tutti i cavalli di battaglia dei repubblicani delle ultime generazioni sono stati cavalcati da Obama, che otto anni dopo aver ammaliato l’America con il “change” ora passa lo scettro suonando sullo spartito del patriottismo. E’ stato uno spettacolo inusuale vedere i democratici parlare con un linguaggio che solitamente pertiene ai repubblicani, e la serata conclusa da Obama era stata un crescendo fatto di prese di posizioni muscolari e internazionaliste su politica estera e sicurezza, accompagnate dagli argomenti pragmatici e mercatisti dell’indipendente Michael Bloomberg, rafforzati dai valori a sfondo religioso del “compañero de alma” Tim Kaine e dall’inno nazionalista, fra intimità e populismo, di quel personaggio monumentale che è il vicepresidente Joe Biden.

 

Nel linguaggio del politicamente corretto si potrebbe definire quella di ieri sera un’opera di “appropriazione culturale”, sennonché sono stati i repubblicani ad abbandonare i loro argomenti più chiari, lasciandoli a disposizione di una Hillary che aveva giusto bisogno di un passaggio alcentro dopo essere stata a lungo tirata a sinistra da Bernie Sanders. Il Partito repubblicano nella sua umbratile versione trumpiana ha scambiato l’internazionalismo con l’isolazionismo, le aperture commerciali con le frontiere e le dogane, la speranza universalista con la categoria dello stato-nazione, i diritti con l'approccio “law and order” e questa nuova faglia di rottura ha permesso a Obama di infilarsi in uno spazio ideologico rimasto vuoto e lì costruire un argomento potente: “Questa non è un’elezione normale. Non è una scelta fra partito oppure fra politiche, non è il solito dibattito fra destra e sinistra”. La scelta “riguarda ciò che siamo come popolo, e se rimarremo fedeli o meno al grande esperimento americano di governo”. Dunque la scelta, così come l’ha descritta Obama, non è fra progressisti e conservatori, ma fra democratici e autoritari. E’ un passaggio efficace, perché precede la logica degli schieramenti e tende una mano ai settori della destra che non voteranno Trump nemmeno con il naso turato. Hillary ringrazia sentitamente: forse soltanto Obama, oratore di pregio ma ancora ammantato della gravitas dell’ufficio presidenziale, poteva tentare una tale operazione di riconversione della campagna democratica.