Hillary Clinton è ufficialmente la candidata del Partito democratico alle presidenziali di novembre (LaPresse)

Tra grandi discorsi e tante lacrime, Hillary conquista la nomination ufficiale alla Casa Bianca

Sanders chiede il voto per acclamazione, Bill Clinton racconta la vita della moglie (tralasciando il 1998). Della spaccatura nel partito restano poche tracce.

Alla convention democratica di Philadelphia ieri sono successe due cose: un evento storico e un grande (e lungo) discorso. L’evento storico è che Hillary Clinton ha ottenuto la nomination del Partito democratico, prima donna per quanto riguarda uno dei due grandi partiti. E’ stato Bernie Sanders in persona a consegnarle la palma della vittoria. Dal microfono della delegazione del Vermont, l’ultima di un “roll call” dall’esito scontato ma denso di simboli, il senatore ha chiesto la sospensione delle procedure di voto, passando alla nomina per acclamazione: è stato un trionfo tangibile dell’unità del partito dopo tante spaccature. Bernie incasserà il gesto sotto forme che si valuteranno se Hillary vincerà a novembre, ma già da giorni i team dei due candidati delle primarie discutono della buonuscita da una campagna che ha creato grandi turbolenze ma potenzialmente allargato la base elettorale nelle lande demografiche dove Hillary è meno attrezzata. Ieri la ridotta degli irriducibili sandersiani, asserragliata nello spicchio dei delegati della California, si è sgolata e ha versato lacrime più del giorno prima, disperandosi per l’ovvio, la sconfitta del proprio candidato, il quale già aveva chiesto in tutti i modi di allinearsi alla maggioranza del partito e abbandonare le proteste. C’è stato tempo anche per un sit-in nel padiglione della stampa, che presto ha svelato la sua natura di okkupazione scolastica con i sacchi a pelo, un rituale emotivo senza scopo se non quello di mostrare i pugni al destino baro e solleticare l’ego degli occupanti in favore di telecamera. A ogni modo, Bernie non avrebbe potuto dare segno più potente di coesione all’elettorato che in questi mesi ha assistito allo spettacolo della disgregazione. Da segnalare la commozione di Bernie quando il fratello, Larry, delegato per i democratici all’estero, gli ha dato il suo voto, ricordando i genitori che sarebbero fieri di lui.

 

Il discorso grande e lungo è quello di Bill Clinton, testa di serie di una giornata ancora una volta fitta di celebrità da capogiro. Quattro anni fa Clinton aveva fatto alla convention democratica un potentissimo intervento che gli era valso la carica scherzosa di “secretary of explaining stuff” e lo stesso Obama aveva riconosciuto che un certo rimbalzo nei sondaggi dopo la convention lo doveva a lui, l’ex avversario che aveva infine abbracciato la causa. L’anodino discorso del presidente in carica in quell’occasione era svanito pressoché istantaneamente dalla testa degli elettori. Bisognerà aspettare la fine della convention per stabilire come si colloca il discorso di Bill nella gerarchia dell’incisività, ma di certo lo scopo era chiaro: umanizzare Hillary. Mettere nella testa degli americani che lei è “the real one”, una perfetta assonanza pubblicitaria con “it’s the real thing”, il leggendario tema musicale della Coca-Cola. Dall’immaginario devono sparire le analogie con la power couple di “House of Cards”, il cinismo di chi coltiva la relazione in funzione del vantaggio politico che offre, devono svanire i calcoli, le triangolazioni e i tradimenti; deve rimanere un’agiografia amorosa e famigliare che Bubba ha interpretato con l’arte southern dello storytelling di cui è sommo interprete.

 

Il bene di cui Hillary è più a corto è l’autenticità, e nei processi di umanizzazione il marito è un luminare, e dall’altra parte della barricata c’è quello che ha definito un “cartone animato”. Per fare tutto questo Bill ha scelto l’approccio storico, offrendo un racconto dettagliato – estremamente dettagliato – che è partito da quando si sono conosciuti nell’aula di Yale dove si tenevano le lezioni sui diritti civili e politici, ed è finito con il caloroso invito a votarla. Ha proceduto quasi anno per anno, con incedere a tratti estenuante, e i giornalisti che si domandavano come avrebbe fatto a contenere tutti quei decenni in un tempo ragionevole. Il 1998 è stato agilmente saltato. Bill ha elogiato la Hillary moglie, la migliore amica, l’avvocato brillante, l’attivista, la senatrice che fa le riforme scomode e il segretario di stato che “ha reso migliore tutti i posti in cui è stata implicata” (“tranne la Libia” è la battuta ricorrente su Twitter).

 

Soprattutto ha elogiato la “change-maker”, la definizione riportata anche sui cartelli distribuiti al pubblico, perché è urgente che la candidata si stacchi di dosso la fama di epigono status quo, del già saputo e dell’establishment bollito, quella che offre all’America un terzo mandato di Obama, con le sue prudenze e le equidistante, mentre Trump promette di rovesciare tutto. Unico neo: la prima parte del discorso, quella che descrive il primo incontro, è in larga parte copiata, quasi parola per parola, da un capitolo della biografia dello stesso Clinton: “My Life: The Early Years”. E’ un peccato veniale, non è mica come averla presa da un discorso di Michelle Obama, ma per un esercizio lirico a favore della moglie che ha come scopo il tratteggiare una realtà autentica, fatta di carne e sangue, il copia incolla appare drammaticamente inadeguato. Hanno concluso la serata della nomination Alicia Keys e Meryl Streep, ennesime celebrità a calcare il palco di Philadelphia per sostenere Hillary e prendere a scudisciate Trump.