Papa Francesco durante la Giornata mondiale dei giovani (foto LaPresse)

Implorare l'occidente di intervenire contro l'Isis coi piedi sul suolo

Adriano Sofri
Si può chiedere a un Papa di non condannare i bombardamenti nel momento del soccorso? Chiedete ai cristiani in medio oriente. La Chiesa rischia, e rischiano pur diversamente i governi democratici, di essere travolta dal contrasto fra le sue parole e gli altrui fatti.

Non so se Angelo Panebianco abbia ragione di temere che le Chiese cristiane, e specialmente la cattolica, si vadano rassegnando all’idea che l’Europa è perduta alla fede e alla tradizione cristiana per “scommettere su altre aree del mondo”. So però che in gran parte delle “altre aree del mondo” il cristianesimo viene estirpato con la violenza. E’ largamente successo in luoghi come il vicino oriente e la confinante Africa nera che furono culle del cristianesimo e sopravvissero tenacemente a vicissitudini sconvolgenti. Succede nell’Asia centrale, in cui il cristianesimo ebbe una presenza importante e oggi si trova forzato non a rinunciare al proselitismo – cui ha rinunciato da tempo – ma alla più discreta testimonianza. Il Bangladesh è l’esempio più attuale. I famigliari di Simona Monti, trucidata in un ristorante di Dacca con la creatura che portava in grembo, hanno appena deciso di ricordarla contribuendo alla costruzione di una chiesa nel villaggio di Harintana, dove i 124 fedeli cattolici hanno “una chiesetta di legno e stagno”. Commovente iniziativa opposta alla terra bruciata che l’islamismo fa a colpi di machete attorno ai cristiani e agli stranieri dalla foggia scostumata.

 

E’ vero che un cristianesimo che perda l’occidente e un occidente, credente o no, che perda il cristianesimo, sono destinati a perdersi a vicenda. Ma la difficoltà di riconoscere prima di tutto e poi affrontare l’aggressione mossa in Europa discende direttamente dalla rinuncia o dall’incapacità di affrontare l’aggressione mossa in Siria e in Iraq e altrove. La Chiesa rischia, e rischiano pur diversamente i governi democratici, di essere travolta dal contrasto fra le sue parole e gli altrui fatti. Le sue parole, ripetute ieri dopo che un vecchio sacerdote è stato sgozzato sull’altare, sono inevitabili: amore, amare i nemici, perdonare… Come si potrebbe chiedere agli uomini di Chiesa (le donne restano ai bordi) di ripudiare quelle parole senza rinnegarsi?

 

Al contrario, sono proprio quelle parole che tutti, anche i non credenti, si aspettano che la Chiesa continui a ricordare. Di Papi che proclamino crociate ne avemmo abbastanza. Ma resta una via d’uscita? Se c’è, non può che stare dentro la distinzione fra Dio e Cesare, mai così attuale. La Chiesa romana aveva compiuto un gran passo ripudiando la guerra giusta e auspicando una polizia internazionale, e un diritto-dovere di intervenire dove vita e dignità di popoli e comunità fossero mortalmente minacciate e colpite. Se n’è dimenticata negli ultimi anni della strisciante guerra universale, dalla primavera siriana in qua, e ancor più dalla mutazione jihadista del Califfato in qua. Mi sembrò esemplare un ritorno in aereo di Francesco. Era il 18 agosto del 2014. Disse il Papa: “Dove c’è una aggressione ingiusta, soltanto posso dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra: fermarlo” – il corsivo è nel verbale della Santa Sede. Il 18 agosto 2014 la coalizione internazionale, cioè gli americani, aveva appena interrotto l’inerzia con cui il mondo aveva assistito all’avanzata dell’Isis, alla rotta dell’esercito iracheno che aveva lasciato nelle sue mani un armamentario micidiale, alla conquista di Mosul, alla minaccia portata fin alle soglie della curda Erbil.

 

L’Isis aveva fatto strage di cristiani, sunniti dissidenti, minoranze di ogni genere, e specialmente di yazidi, trucidati gli uomini, rapite violate e schiavizzate le donne, a migliaia, e gli scampati fuggiaschi, donne vecchi e bambini, sulla montagna di Sinjar. I bombardamenti aerei americani arrestarono, fermarono, il compimento di un autentico genocidio. Niente, se non quelle bombe, l’avrebbe fermato. Fui, lo dico con pena, scandalizzato dalle parole del Papa. Di nuovo: si può chiedere a un Papa di rivendicare bombardamenti aerei? Non credo, ma gli si può chiedere di non condannarli nel momento del soccorso. Mi pare che stia qui la distinzione fra Cesare e (il ministro di) Dio. Aggiungo subito che in quegli stessi giorni fior di pacifisti religiosi o no, che non avevano mosso un dito nei lunghi anni siriani né nei terribili mesi iracheni dal giugno all’agosto 2014, si mobilitarono “contro i bombardamenti americani e per la pace”. Un elenco fitto, non occorre che lo ripercorra qui oggi. Manifestavano per la pace, perché quegli infelici fuggiaschi braccati fin nelle grotte del Sinjar non avessero scampo. Sono orribili le bombe, che arrivino dal cielo o dalla terra. Ma come si sarebbe altrimenti fermato il Califfato? Mi chiesi allora se un Papa con il nome di Francesco e con quelle parole non si preparasse ad andare a mettersi inerme davanti ai blindati dell’Isis: che stupido pensiero. Ma sarebbe venuto a chiunque, se fosse stato Papa e avesse dichiarato: “Ma le bombe no!”. Invece ha esortato al dialogo.

 

Sapete che cos’è un jihadista militante? Uno col quale non potrebbe scambiare una ragionevole frase nemmeno una vecchia sunnita dal capo eternamente coperto. Che sia un veterano spietato a Raqqa o un ragazzino a Saint-Etienne in Normandia un’ora dopo essersi convertito all’ideale della decapitazione, e un’ora prima era “gentile, salutava, aiutava”, nemmeno sua madre potrà più parlargli. Il braccialetto elettronico! Avevo pensato da tanto tempo che il precetto di amare i propri nemici è davvero sublime, ma riconosce che i nemici esistano. Pensai allora che al sublime ammaestramento a porgere l’altra guancia si dovesse discretamente allegare quello a non porgere la guancia degli altri.

 

Da quell’agosto del 2014 a oggi sono passati due anni. Da due anni vescovi e pastori d’Iraq e di Siria, col cuore spezzato, ripetono che “i bombardamenti non bastano”, che “chiedono, anzi implorano l’occidente” di intervenire militarmente coi piedi sul suolo, che una cristianità e altre comunità millenarie stanno agonizzando. Vescovi e pastori – non uno, tutti – parlano al posto di Cesare, perché Cesare diserta, o sceglie le mezze misure. Cesare vuole che il Califfato non trionfi, ma non vuole che la guerra finisca. Il Califfato arriva a sgozzare un vecchio curato di campagna sull’altare della messa dopo aver fatto una lunghissima strada. Dopo aver sgozzato e decollato e crocifisso e filmato apostati sunniti ed eretici sciiti e yazidi e cristiani e omosessuali e giornalisti e volontari, per anni, pressoché impunemente, e dal territorio occupato ha importato combattenti dai quattro angoli del mondo e ha cacciato milioni di diseredati verso un mondo che non li vuole. “Le bombe no!”. Le bombe sul monte Sinjar, o su Kobane assediata, non sono così diverse dalle fucilate con cui le teste di cuoio hanno ammazzato i due assalitori della chiesa di Saint-Etienne. Che ora, morti ammazzati, sono solo due ragazzini che non dimostravano nemmeno i loro 16 e 19 anni, e fino a poco fa erano gentili, salutavano. Dice Luca Monti, il fratello sacerdote della signora trucidata a Dacca: “Nella testa di Simona c’era ferma un’immagine di Francesco: la Chiesa ospedale da campo che cura le ferite”. Che bella immagine. Ma deve pur esistere una campagna di prevenzione, se si vuole fermare l’epidemia.