Donald Trump è il candidato del partito repubblicano alla Casa Bianca (foto LaPresse)

Il fronte del Never Trump si deve rassegnare: The Donald è ufficialmente il candidato del Gop

Alla Quicken Loans Arena Trump ha raccolto 1.725 delegati. Le fronde sono state polverizzate, le polemiche archiviate.

Nel secondo giorno della convention, il partito repubblicano ha ufficializzato la candidatura di Donald Trump. Le fronde sono state polverizzate, le polemiche archiviate e il candidato è andato “over the top”, raccogliendo 1.725 delegati. Alla Quicken Loans Arena è partito il tema di “New York, New York”, mentre sugli schermi venivano proiettati fuochi artificiali su uno sfondo dorato e lo speaker, Paul Ryan, approfittava di un’inutile protesta della delegazione dell’Alaska per trovare il coraggio di pronunciare la formula rituale e di dare la storica martellata. Più tardi ha ingoiato un paio di rospi prima di ricordare che Trump è il candidato del “partito di Lincoln”. Gli oppositori di Trump hanno fatto di tutto per arrivare a una conta con voto palese che alla fine si è rivelata controproducente: quella che lunedì sembrava una protesta donchisciottesca ma degna di nota, ieri ha assunto l’aspetto di una forza trascurabile, un malumore residuale, sovrastato da un blocco tutto sommato solido nell’appoggiare Trump. Uno dei colpi di teatro è stata l’apparizione di Corey Lewandowski come portavoce della delegazione del New Hampshire: l’ex manager della campagna elettorale riciclato come opinionista della Cnn spunta dal nulla e offre i voti del suo stato al “mio amico” Trump. Soltanto in un reality show. La votazione decisiva è stata quella dello stato di New York. Attorno al microfono della delegazione si è assiepata la famiglia Trump, l’unico vero cerchio magico di un candidato tribalista che mette il cognome-brand al di sopra di ogni cosa. E’ stato Donald Trump Jr. ad annunciare il risultato decisivo, e nelle interviste a caldo aveva le lacrime agli occhi mentre diceva che questa non è una campagna, ma un “movimenti”. E’ lui l’eroe di giornata.

 


 


 

La giornata si era aperta su tutt’altre tonalità. Il caso del plagio di Melania Trump, accusata – con prove invero schiaccianti – di aver copiato un paio di passaggi dal discorso di Michelle Obama nel 2008 è esploso nella notte ed è stato successivamente alimentato da una delle più disastrose performance di gestione delle crisi della storia recente. Dal manager della campagna, Paul Manafort, al braccio destro risentito per l’esclusione dalla vicepresidenza, Chris Christie, i pretoriani di Trump hanno offerto versioni diverse per spiegare l’accaduto, nessuna delle quali prevedeva scuse né tantomeno dimissioni di responsabili. A un certo punto si è fatta largo l’ipotesi complottista che un ex speechwriter di Bush assoldato per l’occasione da Trump avesse messo appositamente paragrafi copiati e incollati per sabotare Melania. Irraggiungibile il momento in cui Katrina Pierson, una portavoce del candidato, ha detto che la signora Trump “voleva comunicare agli americani con frasi che avevano già sentito” e piccata ha aggiunto che “non ha inventato lei la lingua inglese”. E’ naturale che un affare gestito in quel modo abbia tenuto banco fino al momento dell’ufficialità della candidatura.

 

Gli interventi della serata erano legati, nelle intenzioni, dal macrotema dell’economia e del lavoro. Titolo-tormentone: “Make America work Again”. A parte l’ex attrice di “Beautiful” diventata coltivatrice di avocado e l’enologa della Trump Winery, nessuno ha parlato di lavoro e tutti si sono prodotti in variazioni sul grande collante tematico della narrazione trumpiana: Hillary Clinton. La parola “lavoro” è stata pronunciata 48 volte, “Clinton” 79, e nemmeno il candidato ha introdotto la questione nel suo breve collegamento dalla Trump Tower (ha deciso di comparire in qualche forma tutte le sere della convention, manovra irrituale che è più significativa di mille discorsi). L’ex procuratore generale Michael Mukasey ha spiegato in punta di diritto in che modo Hillary è colpevole dei fatti di Bengasi (si è parlato più di Bengasi in questa convention che negli ultimi due anni), Chris Christie ha esasperato la foga inquisitoria in maniera inconsulta, trasformando l’arena nell’aula di un processo sommario: un mix fra una riunione di Magistratura Democratica e una giornata tipo di Robespierre, con lui che dopo ogni accusa chiede “colpevole o non colpevole?” e la folla-giuria invasata che intona lo slogan ufficioso di questa tornata: “Lock her up!”, ammanettatela. Mancava soltanto la vittima dell’inquisizione, che a distanza ha twittato un promemoria per Christie su suoi vecchi affari penali con il George Washington bridge. E’ stato anche il modo, non proprio subdolo, in cui il governatore del New Jersey, ancora livido di rabbia, ha fatto capire a Trump quanto è stato grave l’errore di scegliere un uomo pacato e ragionevole come Mike Pence per la vicepresidenza, quando invece disponeva del più affamato dei mastini. C’è stato tempo per il lobbista delle armi che intona il peana sul Secondo emendamento e per Ryan, il ritratto dell’imbarazzo, che si è prodotto in un discorso di solido profilo politico ma evidentemente non in linea con il canovaccio prevalente. Ha parlato di “empatia”, “uguaglianza” e “povertà”, ha fatto la tirata classica contro la “identity politics” di cui invece il trumpismo si nutre, ha articolato idee cosmopolite che ha ricevuto dalla tradizione del partito repubblicano di Reagan e Bush e ha evitato di proposito qualunque keyword del trumpismo.

 


La famiglia Trump attende la nomination di Donald a candidato presidente (foto LaPresse)


 

A fare la sintesi finale ci hanno pensato i due ospiti da cui ci si aspettava meno e che hanno dato di più. Tiffany e Donald Trump Jr. sono stati gli autori dei discorsi più convincenti e coinvolgenti, benché naturalmente privi di affondi sulla policy. La ventiduenne nata dal matrimonio con Marla Maples ha dato al padre quel tocco di umanità che Melania non era riuscita a conferire, complice anche la distrazione di cui sopra. Il primogenito, invece, ha dato tono, respiro e perfino ragionevolezza a un parterre altrimenti eccessivamente nervoso e combattivo. Non ha avuto bisogno di usare i decibel di Rudy Giuliani né di invocare la sedia elettrica per Hillary per conquistare un pubblico che ha apprezzato la sua gravitas quasi presidenziale. Leggeva dal telepromter con la sicurezza di chi sa interpretare un testo scritto come se fosse a braccio. “Non sembra nemmeno un Trump”, ha sintetizzato un acuto collega sulle gradinate del palazzetto.