Una nave della Marina cinese (foto LaPresse)

La guerra della Cina per l'egemonia nel Pacifico inizia dal pollo fritto?

Giulia Pompili

A una settimana dalla sentenza contro le mire egemoniche nel Mar cinese meridionale, nessun accordo è stato raggiunto. In Cina gli episodi di boicottaggio contro America e Filippine dimostrano che il nazionalismo aumenta la tensione nell'area.

A una settimana dalla sentenza della Corte permanente di Arbitrato sul Mar cinese meridionale (leggi gli articoli del Foglio qui) la situazione in quel quadrante del Pacifico è ancora molto tesa. Wu Shengli, comandante della Marina cinese, ha detto a Xinhua, l'agenzia di stampa di Pechino, che la Cina non "fermerà mai la costruzione" nelle isole Spratly (quelle per cui si era aperto l'arbitrato internazionale grazie alla rivendicazione delle Filippine), che fanno parte del territorio cinese e che tutto quello che fanno è "perfettamente legale". Il comandante ha tenuto la linea dura, anche se proprio ieri è arrivato in visita a Pechino il suo omologo americano, l'ammiraglio John Richardson, nel tentativo di instaurare dei colloqui produttivi sulle tensioni nel Mar cinese meridionale. Un buco nell'acqua. Da oggi e fino a giovedì, in parte del Mar cinese meridionale è stata addirittura interdetta la navigazione: Pechino sta svolgendo delle esercitazioni militari nelle acque intorno alla provincia di Hainan, un modo come un altro per mostrare i muscoli. Perfino il ministro degli Esteri filippino, Perfecto Yasay, ha detto ieri che Manila non intende – per ora – istituire colloqui bilaterali con Pechino per trovare una soluzione "condivisa" sulle acque contese.

 

Il problema è che nei paesi del Pacifico la tensione non riguarda solo i Palazzi. Un montante nazionalismo, nella maggior parte degli stati interessati, complica le relazioni diplomatiche. La scorsa settimana, quando la decisione della Corte è stata diffusa, i filippini hanno festeggiato la sentenza come una vittoria di Davide contro Golia. I cinesi pensano, molto semplicemente, che il tentativo di fermare l'inarrestabile crescita di Pechino sia orchestrato da Washington. E' per questo che i simboli della globalizzazione a firma americana rischiano di pagarne il prezzo. Il New York Times oggi spiega che alcuni negozi della catena Kentucky Fried Chicken – la più grande catena di ristoranti della Cina – sono stati vittime di manifestazioni antiamericane da parte di cittadini cinesi. Fuori un KFC di Tangshan un cartello recitava: "Boicotta gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea del sud e le Filippine, ama la nostra nazione cinese". E poi: "Se mangi l'americano KFC, ciò che perdi è la faccia dei nostri antenati".

 



 

Le manifestazioni anti pollo fritto americano sono state l'oggetto di un editoriale del Global Times, quotidiano in lingua inglese di Pechino, che ha scritto anche dei boicottaggi cinesi contro le importazioni di mango provenienti dalle Filippine. Secondo il Global Times, l'economia di mercato cinese è solida e matura, e soprattutto globalizzata, spingendosi quindi a criticare certe manifestazioni di protezionismo economico. Basta un'occhiata alla sezione dei commenti all'articolo, però, per capire che i cinesi non sono poi così d'accordo – e auspicano un più sistematico boicottaggio dei prodotti americani e giapponesi.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.