Theresa May entra al numero 10 di Downing Street (foto LaPresse)

Tory in costruzione

Paola Peduzzi
La May schiva le pressioni sulla Brexit (ma l’Europa scalpita), costruisce il suo governo e cerca di infilare nella formula cameroniana anche la giustizia sociale. Nella destra inglese post europea arriva una leadership “poco appariscente, formata nella scuola pubblica e cresciuta in periferia”

Milano. La preoccupazione più grande oggi a Londra – e a Bruxelles – è capire che cosa pensa Theresa May, nuovo premier conservatore del Regno Unito che ieri ha ricevuto il mandato dalla Regina Elisabetta e si è insediata al 10 di Downing Street. Sappiamo tutto della sua storia di figlia di un pastore anglicano, dell’incidente in cui suo padre morì, della sclerosi multipla della mamma, del suo matrimonio solidissimo con Philip conosciuto a una festa dei Tory, della sua riservatezza, dei figli che non sono venuti, delle scarpe, dei libri di ricette, del diabete, del suo fisico bestiale, ma che cosa voglia fare davvero, la nuova dama glaciale del Regno, per rimettere insieme un paese sconvolto dalla Brexit e da tre settimane di choc politici, oltre che per gestire il divorzio con l’Unione europea, ancora è un mezzo mistero. Le aspettative però sono alte: “The May Supremacy” titola il magazine conservatore Spectator.

 

“Forse questa signora senza carisma, rigida, imperscrutabile ma a pelle onesta sarà capace di tenerci uniti”, dice Stephen Glover, columnist del Daily Mail (tabloid che ha fatto campagna per la May da subito con la sua consueta, divertente assenza di sobrietà). Tenerci uniti, questo è il primo obiettivo: ma uniti a cosa? Mentre gli anti Brexit continuano la loro battaglia per ribaltare l’esito del referendum – si discuterà a settembre in Parlamento una petizione che chiede di organizzare una seconda consultazione – May ribadisce che, pur avendo sostenuto il remain, il suo governo negozierà la Brexit. Non si torna indietro, però non si sa dove si va.

 

David Cameron, ieri al suo ultimo, commovente Question Time, con la moglie Samantha e i suoi figli ad assistere e una standing ovation calorosa – “Mi mancheranno i ruggiti dei parlamentari, mi mancheranno le barbe dell’opposizione, ma continuerò a sperare che abbiate successo” e ancora: “Una volta ero il futuro” – ha ribadito che si augura che il Regno Unito resti “più vicino possibile all’Unione europea”. Questo è il punto dirimente per il negoziato con l’Europa e anche per l’unità dei conservatori di cui la May si è fatta garante. La neo premier dice “Brexit means Brexit”, ma ancora non ha detto che cosa intende lei per Brexit, se non il fatto che vuole aspettare ancora un po’ – la fine dell’anno – per ricorrere all’articolo 50 del Trattato di Lisbona che apre ufficialmente la procedura di uscita dall’Ue. Se i tempi sono incalcolabili – sono previsti due anni, Philip Hammond, nominato ieri prossimo cancelliere dello Scacchiere nel governo May, ha detto che ce ne vorranno almeno sei – anche le modalità di divorzio sono misteriose, così come l’esito che si vuole raggiungere. Durante la battaglia referendaria, i sostenitori della Brexit più noti, soprattutto Michael Gove, dicevano che abbandonare il mercato unico è l’unico modo per liberare il paese dal giogo europeo in modo definitivo, e riprendere il controllo dei trattati di libero scambio e del flusso di immigrazione. May è pronta a una scelta tanto radicale? La domanda è inopportuna, dicono molti commentatori, nessuno è pronto per scelte radicali oggi, ma come ha sottolineato Chris Giles del Financial Times, “il risultato” di questa indecisione “è un’incertezza di breve periodo e minacce di lungo periodo a investimenti, competizione e produttività”.

 

Nei discorsi che ha tenuto da ultimo, la May ha cercato di schivare le pressioni sulla Brexit: non vuole che sia questa la questione che definisce la sua premiership né l’intero paese, ci sono tanti altri temi da affrontare. Ma gli europei scalpitano, divisi tra falchi e colombe, e come spesso capita pretendono comunque tutti che una road map con un obiettivo finale sia stilata. Rapidità è il termine che si sente ripetere nei palazzi europei, ma anche se nessuno sa cosa farsene di tanta fretta – nemmeno gli europei hanno un piano per l’uscita del Regno Unito – è difficile immaginare che la May riuscirà a eludere a lungo le pressioni sulla Brexit. Il compito per lei è ancora più complesso perché mentre deve studiare un progetto internazionale di così grande portata deve anche rimettere insieme i cocci del suo partito.

 



 

Non si tratta soltanto di leader dismessi in tempi record e di faide interne che sono scoppiate tutte insieme: si tratta soprattutto di idee. Come sarà la destra britannica che accompagna il paese nella transizione post europea? Tanto per cominciare, sottolinea Andrew Gimson, che ha scritto una bella biografia di Boris Johnson e conosce bene il mondo conservatore, “è finita la rule etoniana”, quella formazione elitaria che ha caratterizzato la leadership conservatrice dell’ultimo decennio. La May ha avuto una formazione del tutto diversa e soprattutto ha sempre cercato di valorizzare figure che non fossero percepite come appartenenti a una élite che ha contribuito a creare una certa distanza tra la politica e gli elettori. Il columnist dell’Economist Jeremy Cliffe, commentando i gossip sul prossimo governo, ha detto che si sta passando dal “Notting Hill set” di stampo cameroniano al “Maidenhead set”, dove Maidenhead è la constituency della May, composta da “politici poco appariscenti, formati alla scuola pubblica e cresciuti nella periferia di Londra”. Questa predisposizione è utile, secondo alcuni, per riportare il partito verso quella classe lavoratrice che si è sentita trascurata in questi anni, e che ha permesso alla Brexit di affermarsi tra lo stupore di tutti (soprattutto degli etoniani, anche quelli che pure avevano fatto campagna per il “leave”). Ci vuole un nuovo partito dei lavoratori, insomma, e i Tory vogliono essere i primi a costruirlo, al suo primo discorso da premier ieri la May ha messo subito in chiaro le cose: si è rivolta direttamente alla “working class”, ha detto che si dedicherà alla giustizia sociale e a curare le ferite delle diseguaglianze.

 

“E’ un errore enorme considerare i lavoratori più anziani e dal reddito più basso come gli avanzi della storia – dicono Fraser Nelson e James Forsyth dello Spectator che hanno lanciato un manifesto per “a new workers’ party” – I perdenti della globalizzazione sono moderni come la globalizzazione stessa: crescono in numero e in insoddisfazione, ed è per questo che stanno mettendo in difficoltà la politica tradizionale in entrambe le parti dell’Atlantico”. Un partito che non ha un messaggio chiaro e accattivante per questo elettorato è destinato a non avere consenso. Le alleanze tribali non sono più tanto forti tra gli inglesi: secondo un report del British Election Study, tra il 2010 e il 2015 il 38 per cento degli elettori ha votato diversamente, “c’è una fluidità inedita nella storia”, ha scritto Rachel Sylvester in un saggio su Prospect Magazine. Per questo non si fa che parlare della costituzione di un nuovo partito, che nasca da quel 48 per cento che non vuole il distacco dall’Europa – c’è chi discute addirittura del nome, sostenendo che nella campagna per il “remain” si erano create dinamiche bi/tripartisan impensabili, senza ricordare però che c’è un governo che rappresenterà il 52 per cento che vuole la Brexit. Anche all’interno del mondo conservatore c’è chi sostiene che il partito debba cambiare talmente anima da rivedere persino il nome, anche se le esperienze del passato – in particolare lo spin off degli anni Ottanta nato da fuoriusciti del Labour – non sembrano affatto rassicuranti. In ogni caso, la destinazione pare univoca: “Dovremmo chiamarci ‘Workers’ Party’”, ha detto il deputato conservatore Robert Halfon, che anima il forum dei Conservative Trade Unionists, e vuole marciare direttamente nel territorio che storicamente appartiene al Labour. Con il suo discorso di ieri, May ha confermato che la battaglia è tutta lì, in un centro disaffezionato che aspetta di essere ascoltato. Considerato lo stato in cui versa il Labour, le possibilità della May sono alte.

 

Alle elezioni amministrative che si sono tenute nel maggio scorso, prima dello choc della Brexit, i Tory sono tornati a essere visibili in Scozia, raddoppiando i loro seggi (per anni si era detto che i conservatori non potevano essere considerati un partito nazionale non avendo rappresentanti in Scozia). A trascinarli verso una rinascita è stata Ruth Davidson, giovane donna dall’ironia tagliente, bravissima nei confronti televisivi, che incarna il ritorno del partito a un elettorato meno posh e più “working class” rispetto ai Tory di David Cameron. Nel marzo del 2015, prima del voto che avrebbe consegnato ai conservatori una vittoria secca e inaspettata, Theresa May disse di sognare un partito “che prende il potere dalle élite e lo dà alla gente, che non rappresenta soltanto chi ce l’ha fatta, ma che diventi la casa di chi lavora duro e vuole raggiungere obiettivi nella vita”. Tre giorni fa, nel discorso con cui May ha lanciato la sua candidatura senza ancora sapere che di lì a poco sarebbe rimasta senza rivali, la neo premier ha detto: “Oggi, se nasci povero, morirai in media nove anni prima degli altri. Se sei nero, sarai trattato dalla giustizia in modo più duro rispetto ai bianchi. Se sei un ragazzo della working class, hai meno speranze di chiunque altro di entrare all’università. Se frequenti una scuola pubblica, hai meno possibilità di ottenere lavori di alto livello rispetto a chi ha studiato privatamente. Se sei una donna, guadagnerai comunque meno di un uomo. Se sei giovane, avrai più difficoltà a comprarti una casa di quanto sia mai accaduto prima”. Nelle parole della May, come ha confermato ieri, riecheggia quel conservatorismo “One Nation” che era già di Cameron, ma con un vigore anti diseguaglianze che finora non c’era stato. La giustizia sociale, come cura agli eccessi della globalizzazione, è diventata imprescindibile per molti leader politici, e di certo lo è per la neo premier inglese.

 

I cosiddetti conservatori compassionevoli gioiscono: da tempo dicono che questa è la “destra giusta”. Ma le ripercussioni sul mandato della May sono molte, e il Wall Street Journal, citando una frase della neopremier – “dobbiamo essere duri contro le irresponsabilità del big business” –, mette in guardia dalla tendenza populista che potrebbe cogliere anche i conservatori, rovinando il progetto di restaurazione del partito e anzi confermando una tendenza che già sta consumando il Partito repubblicano americano: “Concentrandosi su ineguaglianze e giustizia sociale più che sulla crescita, la May potrebbe ricondurre gli elettori perduti verso il Labour”. Per un paese che deve imparare a camminare senza il sostegno europeo, è importante che la capacità di attrazione resti elevata, e questo vale per il capitale finanziario – che arriva nel momento in cui una nazione cresce ed è solida – come per quello umano. Da ministro dell’Interno, la May è stata molto dura nei confronti dell’immigrazione e ancora la settimana scorsa ha creato il panico tra i lavoratori stranieri che risiedono nel Regno Unito dicendo che bisogna rivedere anche il loro status alla luce della Brexit. Oggi la May sostiene che lo stress dell’elettorato è dettato in gran parte dagli immigrati, cavalcando la retorica dei sostenitori della Brexit, ma non dice che l’occupazione, nel Regno Unito, ha raggiunto il suo picco – al 74,2 per cento nel 2016, la disoccupazione è scesa dall’8 al 5 per cento – nonostante, come è noto, il tasso di immigrazione sia ben più alto di quello che lo stesso Cameron si era dato come obiettivo.
L’immigrazione come opportunità, il rigore come strumento di crescita: questa è la formula che l’ala liberale dei Tory ha creato per restare al potere dal 2010. Theresa May, incastrata nella sua etichetta di “gran pragmatica”, deve trovare il modo di inserirvi anche la giustizia sociale per assecondare l’insofferenza di buona parte dell’elettorato, senza perdere il consenso dei liberali e dei riformatori che il partito ha conquistato in questi anni. Molto dipenderà dal team che si costruirà attorno: George Osborne, ormai ex cancelliere dello Scacchiere, ha dato ieri le dimissioni (“May non ha bisogno di lui”, aveva detto secco un parlamentare a un giornalista del Telegraph nel pomeriggio), Hammond, il sostituto di Osborne, è considerato ideologicamente allineato alla politica economica tenuta finora dal governo: “E’ un falco dal punto di vista fiscale – ha scritto il Financial Times – e il suo approccio liberista pare in contrasto con il progetto della May di mettere fine all’austerità e contenere gli eccessi del capitalismo”. Se oltre ai tanti ministeri alle donne che May vuole assolutamente garantire si verrà a creare un “team of rivals” – come dimostra il ritorno di Boris Johnson, che sembrava fuori dai giochi, e invece come dicono tutti a Londra è “resistente, resistente, resistente” – attorno alla dama di Downing Street, la sorpresa più grande potrebbe arrivare proprio da questa signora tenace, disciplinata e solitaria. Scrive Ed West sullo Spectator: “Chi lo sa, se la May negozia con successo una transizione del Regno Unito verso il modello norvegese, creando un compromesso tra chi è contro la Brexit e chi è a favore, anche le divisioni sull’Europa potrebbero infine rimarginarsi”. Le aspettative sono già troppo alte, ma nell’ora dell’insediamento, molti conservatori si sentono in diritto di sperarci.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi