Forze dell'ordine a Dallas (foto LaPresse)

Oltre Dallas. La questione razziale americana resiste all'ipersemplificazione

I funerali, le manifestazioni e uno studio sorprendente. Obama cita le statistiche che parlano di un generale trend di diminuzione della violenza che va avanti ormai da decenni.

New York. Barack Obama non ha tagliato l’ultimo segmento della sua missione europea soltanto per partecipare ai funerali dei cinque poliziotti uccisi a Dallas, che pure è una motivazione istituzionale e simbolica di enorme rilevanza. Oggi il presidente parlerà nell’ennesima città ferita dalla violenza, accompagnato dal predecessore, George W. Bush, il quale agli occhi dei promotori di una visione manichea e ultrasemplificata della questione razziale in America incarna il tipo del cowboy segregazionista del sud. Obama ha attraversato celermente l’Atlantico anche per non lasciare che siano altre voci a riempire i vuoti della politica incagliata in opposte strumentalizzazioni e della piazza arrabbiata. Nel fine settimana ci sono state decine di manifestazioni in giro per gli Stati Uniti, alcune pacifiche altre più turbolente e oltre trecento persone sono state arrestate. Le maggiori tensioni sono in Louisiana e in Minnesota, dove anche un leader del movimento Black Lives Matter è stato fermato e poi rilasciato.

 

Inquadrare e “narrare” – come si usa dire – il problema a un paese diviso, talvolta sordo, è il compito più complicato per un presidente che deve affrontare la paradossale accusa di non essere riuscito a sciogliere l’irrisolto nodo razziale americano. Cosa certamente vera, ma è vero anche che Obama non si è mai presentato come il profeta di una nuova ricostruzione, e ha delegato il ruolo di coscienza razziale del governo al fidato amico e procuratore generale Eric Holder, poi sostituito, in perfetta continuità, da Loretta Lynch. Ora Obama raffredda il clima, invita a osservare i fatti illuminati dal contesto e disposti secondo le giuste proporzioni. Non crede che “le azioni di un individuo problematico costituiscano una dichiarazione generale sulla situazione del nostro paese” e a chi gli propone la trita e spaventevole analogia con gli anni Sessanta risponde citando le statistiche che parlano di un generale trend di diminuzione della violenza che va avanti ormai da decenni.

 

Sullo stesso spartito ha suonato ieri anche David Brown, il capo della polizia di Dallas, che in conferenza stampa ha ricordato il dato sui crimini violenti nella città texana: riduzione del 53 per cento negli ultimi dodici anni, una delle performance migliori d’America. Se da una parte le indagini indicano che Micah Johnson, il veterano che a Dallas ha preso di mira i poliziotti bianchi, aveva grosse quantità di esplosivo in casa e stava meditando un attacco terroristico di vasta portata, dall’altra trova conferme l’ipotesi dell’azione solitaria di un soldato mandato a casa dal fronte in Afghanistan per un furto di biancheria femminile, un personaggio finito nella blacklist delle associazioni di resistenza afroamericana alle quali sperava di associarsi, bollato come soggetto “instabile” e problematico. Prima di essere ucciso da un robot esplosivo della polizia, Johnson ha scritto con il suo sangue su un muro del parcheggio in cui era asserragliato “RB”, sigla ancora non decifrata dalla polizia ma che potrebbe rimandare a “Rbg”, il “red, blue and green” che compongono la bandiera della liberazione panafricana.

 

Molti dettagli della vicenda ancora rimangono da chiarire, ma l’affermazione della tesi dell’attentatore pazzotico e solitario conforta in qualche modo la posizione di Obama, che invita alla contemplazione della complessità di un fenomeno stratificato, fatto di concause, fattori semi indipendenti e verità controintuitive intorno alla questione razziale e al sistema criminale. Un esempio in questo senso arriva da Roland Fryer, un economista di Harvard di origini afroamericane che, indignato per il trattamento dei poliziotti (che in America sono al novanta per cento bianchi) nei confronti dei neri, due anni fa ha preso a lavorare a una ricerca meticolosa sui pregiudizi razziali fra gli agenti. L’analisi, basata su un campione di migliaia di casi, rivela che gli agenti sono più inclini a usare la forza nei confronti degli afroamericani quando si tratta di fermare, ammanettare, perquisire e intimidire, ma non si riscontrano disparità nell’uso della forza letale. I dati di Fryer dicono che la polizia americana spara ai bianchi e ai neri con la stessa frequenza, un esito che mette in crisi la versione dominante, appiattita esclusivamente su uno schema razziale binario, e che il professore ha definito “il risultato più sorprendente della mia vita”.