Matteo Renzi e Angela Merkel

Renzi e il modello inglese da seguire per riformare l'Europa

David Carretta
Al vertice di Berlino sulla Brexit, il presidente del Consiglio dovrebbe fare “il Cameron”: ora che il premier inglese è fuori gioco, serve qualcuno che metta le cose in chiaro su cosa non va nell’Ue, e cerchi una soluzione.

Bruxelles. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dovrebbe fare quel che David Cameron non ha osato nel mini vertice di Berlino convocato oggi dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel: usare la Brexit per riformare l'Unione europea, anziché giocare una piccola partita per strappare piccole concessioni destinate ad alimentare il processo di disgregazione europeo. Dopo aver promesso di cambiare l'Europa che non va e andare al referendum sulla permanenza del Regno Unito in un'Ue riformata, lo scorso febbraio il premier britannico si era accontentato dell'ennesimo “status speciale” per il Regno Unito: un freno di emergenza sui benefit sociali agli immigrati europei e garanzie per la City di Londra sulla regolamentazione finanziaria, oltre agli opt-out conquistati in passato sull'euro, su Schengen e sullo sconto al bilancio comunitario. Ma lo “special status” – una serie di soluzioni tecnico-giuridiche a una questione identitaria e politica – non ha toccato la pancia degli elettori britannici. L'errore non va ripetuto oggi, dopo la Brexit. Cameron aveva ragione quando, nel suo discorso a Bloomberg del 23 gennaio 2013 per annunciare il referendum, spiegava che senza un'Ue da Ventunesimo secolo “il pericolo è che l'Europa fallirà”. Finalmente allo stesso tavolo di una coppia franco-tedesca incapace di concordare una linea comune sull'euro o sui migranti, tocca a Renzi prendere il testimone per soffiare all'orecchio di Merkel tutto ciò che non va nell'Ue.

 

A Berlino la discussione tra Merkel, Renzi, François Hollande e Donald Tusk rischia di trasformarsi in un cacofonico dibattito sull'articolo 50 del trattato di Lisbona, che regola le procedure di uscita dall'Ue. Il presidente francese vuole mostrarsi forte con i deboli britannici, che non hanno un piano per la Brexit e vedono le loro fondamenta economiche traballare. La cancelliera tedesca giustamente si mostra più prudente, perché essere “cattivi” con il Regno Unito potrebbe avere gravi ripercussioni per il resto dell'Ue e la sua economia. La priorità dovrebbe essere di salvare il salvabile nella relazione con un paese europeo fondamentale in termini economici, finanziari, geostrategici e di sicurezza. Gli europei dovrebbero essere grati al Regno Unito per ciò che ha fatto per loro negli ultimi cento anni, invece di immaginare un trattato di Versailles per umiliare l'avversario. Punire Londra oggi rischia solo di alimentare populisti e nazionalisti rabbiosi verso l'Ue e di fornire un facile alibi ai vari Nigel Farage che ragliano contro Bruxelles. Molto meglio lasciare totalmente liberi i britannici di convincersi che la Brexit è stata un errore. E forse, chissà, in un modo o nell'altro ripensarci. Ma lo scontro sull'articolo 50 rivela l'assenza di fantasia e visione dell'attuale leadership europea.

 



François Hollande e Angela Merkel (foto LaPresse)


 

Entrati ormai in campagna elettorale per il 2017, Merkel e Hollande non sono in grado di accordarsi su un grande progetto di rilancio dell'Ue. Il sogno federalista era morto ben prima del referendum del 23 giugno: dal Patto di Stabilità ai migranti passando per il Ttip, il merito della Brexit sarà di dimostrare che la Perfida Albione non è la ragione dello stallo europeo. Ma il problema non sono nemmeno “le procedure e i vincoli”, come ripete da tempo Renzi a sua convenienza. Qualsiasi club è fondato su una serie di regole che vanno rispettate. La flessibilità da zero virgola concessa all'Italia o la mancata sanzione alla Francia sul deficit non hanno fermato il Movimento 5 Stelle e Marine Le Pen. Il problema di fondo dell'Ue – come aveva spiegato Cameron nel 2013 – è la sua incapacità di entrare nel nuovo secolo. Il Ttip? Socialisti francesi e socialdemocratici tedeschi vogliono affossare la Nato del commercio, che consentirebbe all'Occidente di rispondere alla sfida dell'Asia e degli altri emergenti. Gli Ogm? La Commissione se ne lava le mani e lascia libertà agli stati membri di vietarli. Google? L'antitrust Ue è impegnato in una guerra di retroguardia e protezionista voluta da un grande editore tedesco. Uber? La Commissione non sa decidersi se è un fornitore di servizi o una società di trasporti. Netflix? L'esecutivo comunitario sta di fatto introducendo frontiere digitali alla libera circolazione dei servizi. Airbnb? Gli stati membri hanno ottenuto il permesso di vietarlo “in ultima istanza”.

 

Il mondo corre e l'Ue – i suoi stati membri e le sue istituzioni – sono ancora bloccati nel dibattito economico da Ventesimo secolo. Come ha ricordato Cameron il 23 gennaio 2013 citando Merkel: “Se l'Europa oggi conta per appena il 7 per cento della popolazione mondiale, produce circa il 25 per cento del pil globale e finanzia il 50 per cento della spesa sociale globale”. Battibeccare su flessibilità da zero virgola e surplus commerciali è inutile. Meglio proporre un grande scambio sull'unione bancaria, anche a costo di qualche sacrificio. Per sopravvivere servono competitività, riforme, riduzione del ruolo dello stato e della spesa pubblica per ridurre le tasse. Dopo il 2017, con le elezioni in Francia e Germania, potrebbe esserci un'occasione di “reset”. Il cambiamento potrebbe cominciare subito dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker: un leader del Ventesimo secolo con una visione ristretta dell'Ue ai sei paesi fondatori, in grado di trovare piccoli compromessi giuridici, ma incapace di parlare agli europei del Ventunesimo secolo.