Pedro Sanchez (foto LasPresse)

Il socialista Sánchez tra Podemos e aneliti centristi

Guido De Franceschi
Il leader del Psoe si è arreso, accettando il fallimento del suo tentativo di stringere un patto con i Ciudadanos di Albert Rivera alla sua destra e con il partito di Iglesias alla sua sinistra. E così la Spagna torna alle urne oggi

 

Milano. Camicia bianca, sorriso Durban’s e occhio carboncino penetrante, lu bellu guaglione in chief dei socialisti spagnoli Pedro Sánchez, dopo le elezioni del dicembre scorso, ha velleitariamente preteso il ruolo da protagonista nei negoziati per la formazione del governo, approfittando del gran rifiuto del premier in funzioni Mariano Rajoy (“tanto non ho i voti in Parlamento, inutile accettare incarichi esplorativi dal re”, fu allora il ragionamento del leader del Partito popolare, vincitore senza maggioranza delle elezioni). Dopo aver calcato il proscenio per mesi, Sánchez si è arreso, accettando il fallimento del suo tentativo di stringere un patto con i Ciudadanos di Albert Rivera alla sua destra (mission accomplished) e con Podemos alla sua sinistra (“no, Pedro, non appoggeremo un governo di cui fanno parte anche i centristi liberali”, è stata la risposta di Pablo Iglesias, leader della formazione movimentista). E così la Spagna torna oggi alle urne.

 

Che cos’è cambiato in questi sei mesi? Poco: Sánchez, sotto la sempre più occhiuta sorveglianza dei baroni regionali del Psoe e dei padri nobili del partito (leggi: di Felipe González, già premier dal 1982 al 1996), continua a gettare sguardi intensi nelle telecamere e a guardarsi dalla presidente socialista del governo andaluso, Susana Díaz, che lo sostiene sul bordo del precipizio elettorale con una presa così solida che sembra pronta a dargli proprio quella spintarella lì, verso il basso; il leader del Pp, Rajoy, con la sua aria da malinconico e goffo hidalgo della provincia galiziana, continua a ripetere il buon record economico del suo governo e a interpretare la sua parte di maggior successo, quella del frangiflutti, impassibile di fronte a ogni provocazione proveniente dall’interno o dall’esterno del suo partito (da ultimo, di fronte allo scandalo sulle presunte pressioni sul capo dell’Ufficio antifrodi catalano da parte del ministro dell’Interno, il popolare Jorge Fernández Díaz, a caccia di punti deboli dei leader dell’indipendentismo); il leader di Ciudadanos (C’s), Albert Rivera, continua a presentarsi come il giovane jolly, ma non sembra capace di emanciparsi dal destino di brillante quarto classificato. L’unica novità viene da Podemos, che ha convinto i postcomunisti di Izquierda Unida a fare una lista elettorale congiunta. Una novità geometricamente pesante.

 

La media dei sondaggi attribuisce a tutti i partiti più o meno la stessa quota di voti del dicembre scorso: allora il Pp ottenne il 28,7 per cento (123 seggi), il Psoe il 22 (90 seggi), Podemos con i suoi alleati regionali il 20,7 (69 seggi), C’s il 13,9 (40 seggi), Izquierda Unida il 3,7 (2 seggi). Questo significherebbe due cose. In primo luogo, la lista Unidos Podemos, formata dall’accordo tra Podemos e Izquierda Unida, arriverebbe seconda compiendo il fatale “sorpasso” sui socialisti, che subirebbero l’umiliazione del terzo posto. E, in secondo luogo, risultati percentuali uguali a quelli di sei mesi fa si tradurrebbero in un considerevole aumento dei seggi per la lista unitaria Unidos Podemos (almeno 15-20 in più) e in una riduzione dei seggi per tutti gli altri, in virtù dei meccanismi della legge elettorale spagnola, che questa volta convertirebbero in “utili” gran parte dei voti “buttati” a dicembre dagli elettori di Izquierda Unida. Se così fosse, e così probabilmente sarà, rimarrebbero escluse le opzioni maggioranza di centrodestra (Pp+C’s) e maggioranza di centrosinistra (Psoe+C’s). Pedro Sánchez si ritroverebbe quindi a essere di nuovo, ma questa volta suo malgrado, protagonista e dovrebbe scegliere tra l’aiutare con i suoi voti un governo di minoranza del Pp e lo stringere un patto con Unidos Podemos.

 

Tertium non datur

 

Se continuiamo ad attenerci allo scenario più prudente (cioè, percentuali pressoché inalterate rispetto a dicembre, ma con una redistribuzione dei seggi favorevole a Unidos Podemos) la scelta di appoggiare un governo a guida popolare per il bello-senza-fascino del Psoe sarebbe suicida. “Ma come, Pedro, – direbbe la metà dei pochi elettori socialisti residui – ora che il Pp ha addirittura perso qualche seggio, accetti di offrire alla destra quell’appoggio grancoalizionalista che hai giustamente escluso per sei mesi? Promemoria per la prossima volta: votare Podemos”. Ma per Sánchez sarebbe suicida anche accettare il dialogo che gli offre Podemos, sul modello portoghese, specie se da junior partner rispetto alla coalizione della izquierda radicale in termini di voti e di seggi. Se però, come alcuni sondaggi autorizzano a pensare, ci fosse in Parlamento una maggioranza assoluta sommando Unidos Podemos e Psoe, sarebbe molto difficile per Sánchez rifiutare un governo del “cambio a sinistra”, per riguardo nei confronti della succitata metà degli elettori socialisti allergici a patti con la destra.

 

Ma ecco che potrebbe ribellarsi l’altra metà dei pochi elettori residui del Psoe: “Ma come, Pedro, Podemos ci ha sorpassati, tenta di sostituire il Psoe come grande partito della sinistra e tu che cosa fai? Ti ci allei, da sorpassato, così finiscono di divorarci? E poi, no, il referendum catalano, no, mai! Promemoria per la prossima volta: votare Ciudadanos”. Infatti, il sostegno alla legittimità dei referendum indipendentisti è una condico (quasi) sine qua non per Podemos, che ha in Catalogna, nei Paesi Baschi e in Galizia serbatoi determinanti di voti. Sguardo intenso in camera, scintillio degli incisivi che si riverbera sulla camicia nivea e poi… E poi, se il risultato delle elezioni sarà davvero quello suggerito dai sondaggi, Pedro dovrà scegliere: tertium non datur, perché tertium significa l’impensabile, cioè terze elezioni e altri sei mesi senza un governo eletto. Una scelta che per Pedro rischia di essere “lose-lose”.