mariano Rajoy (foto LaPresse)

Che cosa deve aggiungere ora Rajoy al suo mantra dell'estabilidad

Eugenio Cau
Anche nel giorno fatale della Brexit, con l’Europa in tumulto, l’Ibex che fa la peggior apertura di mercato della sua storia e un tremito di incertezza che percorre il continente, il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, da dicembre facente funzioni, continua a esprimere un solo concetto: “la estabilidad”.

Roma. Anche nel giorno fatale della Brexit, con l’Europa in tumulto, l’Ibex che fa la peggior apertura di mercato della sua storia e un tremito di incertezza che percorre il continente, il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, da dicembre facente funzioni, continua a esprimere un solo concetto, lo stesso che ha espresso per gli ultimi due anni: “la estabilidad”. Lo ha ripetuto ieri mattina in un discorso alla nazione dopo il risultato referendario britannico. La Brexit sta diffondendo ondate di paura nel mondo? Solo io, cari spagnoli, vi garantisco la estabilidad. Una frammentazione politica senza precedenti sta dilaniando la Spagna lasciandola con un governo mutilato? Votate me, io sono l’unico bastione della estabilidad. E prima ancora: la più grave crisi economica dalla Grande depressione ha fatto inabissare la nostra economia, tagliando posti di lavoro, pil e speranze? Affidatevi a me, solo io ho abbastanza estabilidad per uscirne. Stabiltà, affidabilità, governabilità. Sono ricette garantite su cui Rajoy, per indole, carattere e formazione, ha puntato tutto, e che hanno funzionato: fermo come una roccia in mezzo alle tormente, il premier ha davvero tirato fuori il suo paese dalla più grande crisi economica da decenni, trasformando un disastro in una storia di successo. Ma alla fine Rajoy, a forza di apparire stabile, ha iniziato a sembrare ai suoi stessi elettori come immobile, e così rischia di presentarsi agli spagnoli alle elezioni, le seconde in pochi mesi, che si celebreranno domani.

 

Nella sua ventennale carriera, Rajoy non ha mai fatto sognare gli elettori e i media per il suo carisma. “Noioso”, gli hanno detto. “Grigio tecnocrate”. “Un sopravvissuto”. “Allergico ai rischi”. “La sua parte di miglior successo è quella del frangiflutti” (quest’ultima geniale definizione l’ha data questa settimana Guido de Franceschi su questo giornale). Nei suoi quattro anni al governo, e in questi lunghi mesi di doppia campagna elettorale, il premier ha sempre mostrato, con pochissime eccezioni, quella che questa settimana Guy Hedgecoe su Politico.eu ha definito “politica dell’inerzia” e “strategia dell’immobilismo”. “Si può dire senza dubbio che l’inerzia, per Rajoy, non è un elemento caratteriale ma una vera strategia politica. Rajoy fa parte di quelle persone che pensano che alcuni problemi si risolvano solo con il passare del tempo, e che altri non si possono risolvere. In quattro anni quasi non ha fatto cambiamenti nel governo, ha aspettato che i nazionalisti catalani si dividessero tra loro e che il processo indipendentista franasse, ha atteso che i dirigenti del Partito popolare in grado di disputargli la leadership si bruciassero da soli, perdendo le elezioni o colpiti dagli scandali di corruzione”, dice al Foglio Josep María Castellá, professore di Diritto costituzionale all’Università di Barcellona. “Rajoy ha la fama di saper gestire in maniera magistrale i tempi strategici, e la sua politica consiste nel non fare politica”.

 

Forse nessun tecnocrate europeo, nemmeno quelli puri come l’italiano Mario Monti, hanno mai messo in pratica una concezione tanto avanzata della tecnocrazia. Per Rajoy la correttezza di una decisione prescinde non solo dalle appartenenze ma anche dal dibattito e dal compromesso. La politica è un processo lineare che si fa in un ambiente asettico di laboratorio, dove le decisioni giuste sono divise da quelle sbagliate, testate e messe in pratica. E quando qualcuno si oppone a questa visione, Rajoy appare visibilmente in difficoltà: ho tenuto da conto tutti i parametri, il procedimento era corretto, ho rifatto tutti i calcoli due volte, cosa c’è che non va? La battaglia politica e il dibattito elettorale sono due accidenti sgradevoli e purtroppo inevitabili nella mentalità di Rajoy, a cui inoltre sono quasi del tutto sconosciuti i codici del carisma e del fascino.

 

Il risultato di questa politica efficace ma poco mediatica è che Rajoy si è presentato alle elezioni del 20 dicembre, e lo rifarà di nuovo nella loro ripetizione di domenica, al tempo stesso come il segretario del primo partito di Spagna e come il leader più disprezzato. Dopo le scorse elezioni, quando il paese era immobilizzato dalla frammentazione politica, nessun partito aveva abbastanza voti per formare un governo e più che mai si sentiva il bisogno di qualcuno che scendesse nell’arena pronto a sporcarsi la mani con attitudine sanguigna e in un certo senso italiana, il freddo attendismo di Rajoy sembrò la peggiore delle risposte. Il premier, pur essendo il leader del partito più votato, rifiutò l’incarico di re Felipe per formare un governo (“non ho abbastanza voti”, disse) e si ritirò dai negoziati, lanciando appelli alla “estabilidad” ma lasciando in buona pratica che il socialista Pedro Sánchez e i due inesperti leader di Podemos e Ciudadanos gestissero le danze fino al loro fallimento e alla ripetizione dei comizi. “Rajoy si è comportato come avrebbe fatto qualsiasi altro leader europeo ragionevole”, dice al Foglio Eduardo Inda, fondatore e direttore del quotidiano OkDiario. “Ma stavolta non si potrà più rimandare la formazione di un governo, gli spagnoli non lo sopporteranno”. Tradotto: serve un cambio di passo per ribaltare la situazione.

 

I sondaggi, per ora, profetizzano l’eterno ritorno dell’uguale: alle Cortes i partiti riprenderanno più o meno lo stesso numero di seggi, con l’eccezione del “sorpasso” di Unidos Podemos sui socialisti del Psoe; Rajoy rifiuterà ancora l’incarico perché privo di maggioranza anche se primo nei risultati e si ripeteranno le stesse dinamiche fallimentari. Gli altri partiti finora hanno mostrato fin troppa attività: da mesi si mordono le caviglie a vicenda (e mordono quelle di Rajoy) in un gioco infruttuoso di accuse e sterili alleanze. In un quadro così, dunque, l’unica variabile rivoluzionaria potrebbe essere appunto Rajoy. Che però dovrebbe smettere i panni dell’attendista e, per usare un’espressione popolare, tirare fuori i cojones. “In questo momento Rajoy sembra condannato”, dice Eduardo Suárez, giornalista cofondatore di El Español, vincitore del prestigioso premio García Márquez per il giornalismo e oggi cofondatore della start up giornalistica Politibot. “Non è riuscito a ottenere abbastanza appoggio fuori dal suo elettorato tradizionale di destra, e gli altri leader si oppongono a lui in maniera decisa. Sia Podemos sia i socialisti hanno detto che non lo appoggeranno mai, nemmeno con l’astensione a un governo di minoranza, e i centristi di Podemos hanno posto come condizione per il sostegno al Partito popolare proprio un passo indietro del premier.

 

E’ davvero difficile che adesso riesca a tornare al governo, perché da un lato le sinistre potrebbero avere i numeri per governare quasi da sole, dall’altro Ciudadanos potrebbe riuscire a ottenere la sua testa. Ma Rajoy, nel corso della sua carriera, è sempre riuscito a resuscitare quando tutti lo davano per morto”. “Rajoy avrebbe dovuto accettare fin da dicembre la proposta di investitura del re e prendere le redini dei negoziati con i partiti costituzionali (tutti tranne Podemos, ndr)”, dice il professor Castellá. Decidere di farlo domenica notte, se davvero il risultato elettorale dovesse ripetere la situazione esistente, potrebbe essere il modo migliore per riportarsi al centro del dibattito (diverso sarà se, come temono alcuni specie dopo gli ultimi scandali che hanno colpito il Pp, Podemos farà l’exploit consentendo alle sinistre di governare da sole o quasi: a questo punto il dramma sarà tutto del socialista Sánchez). Per Eduardo Inda, Rajoy potrebbe avere abbastanza margine di manovra per creare una “grande coalizione encubierta”, costringendo sottobanco i socialisti pressati da Podemos a un voto di responsabilità.

 

Per fare questo, Rajoy deve tornare a essere il politico che non è mai stato. Molti dicono che non ne abbia le capacità, ma la storia del premier arrivato al potere quasi per sbaglio, del funzionario anonimo da sempre alle prese con una sfida più grande di lui, non tiene quando si guarda ai suoi risultati. Qualcosa vuol dire se il grigio Rajoy ha trasformato la Spagna dal paese che più terrorizzava i mercati internazionali a quello che più cresce nell’Europa continentale. Rajoy è più che un sopravvissuto, deve riuscire a dimostrarlo.

 

(ha collaborato Silvia Ragusa)

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.