Donald Trump (foto LaPresse)

Brand e politica estera. La Brexit vista dal golf club di Trump

The Donald accarezza i sentimenti antiglobalisti dalla Scozia, il teatro del suo “dream from my mother”. Aveva spiegato che, oltre all’operazione commerciale, la visita avrebbe avuto anche un senso “narrativo”.

New York. Il senatore repubblicano John Thune è confuso circa il motivo del viaggio di Donald Trump in Scozia che comincia oggi: “Spero che torni indietro il prima possibile”, ha detto, inquadrando un sentimento diffuso fra gli alleati, specialmente quelli che hanno dovuto ingoiare Trump a naso turato. Il candidato ha i ranghi della campagna in subbuglio, deve sciogliere diversi nodi sulle modalità di finanziamento da qui a novembre e ha appena lanciato una nuova fase della guerra contro Hillary Clinton: una visita di natura commerciale e pubblicitaria ai suoi golf club in Scozia non sembra rientrare nella lista delle priorità. Ma per Trump non esiste un confine fra gli affari e la politica, la sfera pubblica e quella personale hanno un’ampia area di intersezione, forse coincidono interamente, e ogni gesto che coinvolge il brand scolpito a lettere dorate è intimamente connesso con il progetto presidenziale. Dal suo punto di vista la missione scozzese non è una distrazione: “Tutti gli occhi del mondo saranno puntati su di lui”, ha spiegato il figlio Eric, che si è occupato degli investimenti in Europa.

 

Poco importa se, come ha raccontato il Washington Post con un’inchiesta al solito tagliente, il campo da golf con faraonico resort di Aberdeen (uno dei due che Trump visita in questi giorni) doveva cambiare la storia dello sport e dell’economia locale, dando lavoro a settemila persone, mentre nella realtà è un baraccone semideserto snobbato dai campioni che ha soltanto 150 dipendenti. Trump già in primavera aveva spiegato a una testata scozzese che, oltre all’operazione commerciale, la visita avrebbe avuto anche un senso “narrativo”, tracciando un parallelo alla corsa per la Casa Bianca: “Quando sono  arrivato per la prima volta ad Aberdeen, gli abitanti mi hanno messo alla prova per vedere se facevo sul serio, esattamente come i cittadini americani hanno fatto per la corsa alla Casa Bianca”, ha scritto in un editoriale intitolato “Come la Scozia mi aiuterà a diventare presidente”.

 

L’opera di persuasione del popolo scozzese era una specie di prova generale, fatta non a caso nel paese della madre di Trump, che veniva dalle depresse isole Ebridi e aveva una particolare ammirazione per la corte britannica. E’ una specie di “dreams from my mother” in versione scozzese e golfista. Di solito i candidati alla Casa Bianca fanno viaggi all’estero in campagna elettorale per aumentare la loro credibilità internazionale, ma Trump recita la sua parte seguendo il canovaccio dell’outsider di successo, non quello del politico “all talk, no action”.  E sullo sfondo, naturalmente, c’è la Brexit.

 

La Reuters qualche giorno fa scriveva che la Brexit è “il trumpismo senza Trump”, un mix nostalgico-xenofobo,  e al netto delle semplificazioni transatlantiche e delle notti in cui tutti i populismi sono neri, il candidato agita temi generali che sono affini agli istinti del fronte del “leave”. La logica nazionalista, il disprezzo viscerale per le istituzioni internazionali, dalla Nato a Bruxelles – sono strumenti nelle mani dell’odiata ideologia globalista – l’inclinazione verso la protezione, che si declina nell’imposizione di dazi per proteggere la produzione interna e nell’innalzamento dei muri per scoraggiare l’immigrazione, tutte queste cose sono in qualche forma rappresentate in un referendum ad alto coefficiente simbolico.

 

Per Trump non c’è luogo più adatto di un campo da golf in Scozia per accogliere la decisione della Gran Bretagna, e il messaggio politico vale a prescindere dall’esito del referendum. Alla vigilia del viaggio che confonde gli alleati in patria e ha l’aria di una stravagante perdita di tempo è arrivato anche l’endorsement di Donald Rumsfeld, ovvero l’appoggio della più importante tra le figure del Partito repubblicano dei Bush. Giocando sulla sua famosa distinzione logica fra il noto e l’ingnoto, Rumsfeld ha detto che Trump è un “known unknown”, cioè qualcosa che sappiamo di non conoscere: “Sono molto più a mio agio con un ‘known unknown’ a cui darò il mio sostegno che con un ‘known known’ che è inaccettabile”, ovvero Hillary Clinton.
In linea di principio, ha spiegato Rumsfeld, “sono d’accordo con l’idea di riformare la Nato” e ha manifestato sostegno anche per la sospensione del flusso di migranti dalla Siria verso gli Stati Uniti. L’ex segretario della Difesa non arriva a dire, con Trump, che la Nato è “obsoleta”, ma ha incaricato una persona del suo staff di mettere a confronto ciò che il candidato ha effettivamente detto sull’Alleanza atlantica e quello che i media hanno riportato. Le due versioni, dice, sono molto diverse fra loro.

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