Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker a San Pietroburgo (Foto LaPresse)

I costi dell'isolamento russo e lo stato confusionale dell'Europa

David Carretta
Arriva Juncker a San Pietroburgo nonostante le proteste dell’est e del nord. I rischi di un’Ue divisa per le sanzioni e l’economia.

La Davos di Vladimir Putin, con la partecipazione di Matteo Renzi e Jean-Claude Juncker malgrado le proteste dei paesi dell’Europa dell’est e del nord, ha dimostrato ancora una volta quanto l’Unione europea si muova in ordine sparso quando si tratta di fare affari politici ed economici con la Russia. Ma paradossalmente il Forum economico internazionale di San Pietroburgo ha anche evidenziato le debolezze di Putin, la cui strategia del “divide et impera” in Europa si sta rivelando parecchio rischiosa, nel momento in cui l’economia russa avrebbe bisogno di un potente ricostituente di investimenti internazionali, che solo la fine delle sanzioni occidentali potrebbe garantire. Il Cremlino ha lanciato una grande campagna di lobby diplomatica per evitare il rinnovo delle misure adottate dagli europei dopo l’annessione della Crimea e l’invasione dell’Ucraina. Ma nessuno tra gli amici europei di Putin – oltre a Renzi, l’ungherese Viktor Orbán, il greco Alexis Tsipras, il cipriota Nikos Anastasiades – ha usato il proprio diritto di veto per impedire all’Ue l’ennesimo prolungamento delle sanzioni. La prossima proroga è attesa entro la fine del mese e dovrebbe durare fino a dicembre. “L’unico modo per levare le sanzioni”, ha ricordato ieri Juncker nel suo discorso al Forum economico internazionale, è “la piena attuazione degli accordi” di Minsk: rispetto della tregua in Ucraina, ritiro delle forze russe nel Donbass, sgombero del materiale militare, restituzione del controllo delle frontiere tra Ucraina e Russia a Kiev. “Né più, né meno”, ha detto il presidente della Commissione.

 

L’Ucraina è stata un momento di svolta nelle relazioni euro-russe. L’annessione della Crimea ha determinato la prima modifica delle frontiere europee con la forza dopo la Seconda guerra mondiale. L’invasione del Donbass è stata vissuta come una provocazione nei confronti di chi – come la cancelliera tedesca Angela Merkel – stava ancora cercando di mediare tra pro russi e anti russi dentro l’Ue. L’abbattimento del volo MH17 della Malaysian Airlines sui cieli dell’Ucraina dell’est da parte di un missile russo – morirono 298 persone, in gran parte europee – ha portato alle sanzioni come unica alternativa a una reazione militare. Nell’estate del 2014, la priorità era difendere non tanto l’Ucraina, ma la credibilità dell’Europa. Da allora in molti si sono lamentati per una decisione dolorosa sul piano economico e controproducente su quello politico. Ancora oggi c’è una forte corrente di pensiero che teorizza la necessità di un’alleanza strategica con Putin, chiudendo un occhio sul passato recente. Gli agricoltori francesi e italiani si lamentano per il contro embargo messo in campo da Mosca. L’Italia, gli industriali tedeschi e i resort ciprioti denunciano il crollo delle esportazioni verso la Russia o del turismo dalla Russia. L’Alto rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini, predica la cooperazione con Mosca sulle crisi mediorientali, in particolare Siria e Libia. Il vicecancelliere tedesco, il social-democratico Sigmar Gabriel, negozia senza farsi troppo vedere dai partner dell’Ue la costruzione di Nord Stream 2. Solo che, contrariamente alle previsioni catastrofiste dell’estate 2014, l’Ue ha imparato a vivere anche senza la Russia. L’impatto delle sanzioni è limitato. Il prezzo del greggio a 50 dollari ha reso gli europei meno ricattabili. La conseguenza diretta più grave della guerra in Siria – la crisi dei rifugiati – è stata per ora appaltata alla Turchia.

 

Putin, per contro, ha scoperto che vivere senza l’Ue è molto più difficile. Secondo il Fondo monetario internazionale, a causa delle sanzioni e del crollo dei prezzi del petrolio, l’economia russa quest’anno si contrarrà dell’1,8 per cento, dopo la recessione del 3,7 per cento del 2015. Il bilancio pubblico piange: l’ultimo esempio è l’interruzione dei lavori per la costruzione del ponte sul canale di Kerch che dovrebbe collegare la Russia alla Crimea, dopo che il ministero dei Trasporti di Mosca ha smesso di pagare Stroygazmontazh, società di un alleato di Putin, Arkady Rotenberg. In termini geopolitici, la strategia delle aggressioni e delle provocazioni ha stretto i ranghi occidentali. La Nato ha rafforzato la presenza militare a est. Svezia e Finlandia stanno valutando l’ingresso nell’Alleanza atlantica. L’intervento in Siria ha portato Putin sull’orlo di una guerra con la Turchia che coinvolgerebbe anche la Nato. Il suo sostegno ai partiti populisti in Europa – come i prestiti al Front national in Francia – hanno rafforzato l’ostilità di Merkel. Così a fine maggio, mentre i leader del G7 erano in Giappone, Putin è stato costretto a un umiliante G2: è stato accolto con tutti gli onori del caso ad Atene dal premier Tsipras, che ha parlato contro le sanzioni, ma non farà nulla per impedirne il rinnovo. “Dobbiamo parlare” perché è “buon senso”, ha spiegato Juncker. Ma la riconciliazione si farà tenendo conto delle condizioni europee: se l’Ucraina vuole sviluppare legami più stretti con l’Ue “questa scelta deve essere rispettata”, mentre la Russia deve condividere “un impegno sui valori umani fondamentali che sono alla base di una società libera”.