Hillary Clinton (foto LaPresse)

Inizia la corsa per novembre

I piccoli e grandi ostacoli sulla strada di Hillary per la Casa Bianca

Paola Peduzzi
Clinton ha i numeri per la nomination, ma ora deve cercare l’unità del partito, una strategia anti Trump e l’amore. Primo obiettivo: conquistare gli elettori di Bernie. L’intervento di Obama.

Milano. La campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti – si voterà l’8 novembre – è cominciata: Hillary Clinton ha raggiunto il quorum dei delegati necessari per dichiarare chiuse le primarie, ha vinto anche la California e chiede di essere la nominata del Partito democratico alla convention di Filadelfia, la prima donna della storia americana ad arrivare fin qui. Nulla di sorprendente, si dirà: lei è da sempre la candidata inevitabile. Ma l’inevitabilità non è quasi mai garanzia di alcunché, figurarsi se lo è per una politica come Hillary, che dall’inizio degli anni Novanta combatte per essere amata dal popolo americano, e ci riesce poco. I numeri ora ci sono, ma appunto, la campagna per la Casa Bianca inizia soltanto adesso. Sulla strada della Clinton ci sono ostacoli più o meno grandi. Il primo è Bernie Sanders, il rivale di Hillary che non vuole, nonostante abbia perso la conta dei delegati, abbandonare la corsa. Il suo obiettivo è arrivare alla convention a fine luglio con un piano da disruptor che si fonda su un gruppo di superdelegati – ridotto, ininfluente al momento – che contesterà la nomination della Clinton. Il presidente Barack Obama ha convocato oggi il senatore del Vermont alla Casa Bianca: vuole convincerlo a uscire dalla corsa, in nome dell’unità dei democratici. Ora, a Sanders del partito poco importa, visto che vi si è iscritto all’ultimo momento disponibile per partecipare alle primarie, ma l’abilità persuasiva di Obama è grande e, come dice un titolo del New York Magazine, il team di Bernie deve soltanto mettersi d’accordo su come far morire la campagna. L’elemento che più interessa a Hillary però è: che fine farà l’elettorato di Sanders?

 


Un'elettrice di Sanders (foto LaPresse)


 

Donald Trump, che è diventato il candidato dei repubblicani già da qualche tempo e ha messo a tacere con le sue vittorie molti dilemmi interni al suo partito, ha subito lanciato un’Opa sugli elettori che adorano Sanders e detestano Hillary (quasi tutti: ai comizi di Bernie il nome della Clinton è pressoché impronunciabile). Venite a me, ha detto Trump, io sono il candidato giusto per voi. Delle somiglianze tra l’elettore di Sanders e quello di Trump se n’è parlato molto e ancora se ne parlerà, ma toccherà a Hillary sperimentare sulla propria pelle l’effetto di tali somiglianze: un precedente c’è già, ed è quello di Susan Sarandon, l’attrice gran sostenitrice del senatore del Vermont che, tra Trump e Hillary, è più propensa a votare Trump. Se il fattore Sarandon è dominante nel popolo che “feel the Bern”, i guai per Hillary potrebbero essere grandi. Resta, al di là delle connessioni tra i populismi di destra e di sinistra, il fatto che c’è una differenza tra essere di destra o di sinistra. Ma a confondere ancora un po’ il guazzabuglio ideologico emerso da queste pazze primarie c’è che né Sanders né Trump possono essere considerati del tutto rappresentativi dei loro partiti.

 

Oltre ai calcoli sui vari bacini elettorali e i trend di preferenza degli stati, la missione di Hillary incontra un altro ostacolo: riprendersi l’etichetta del cambiamento. Dopo otto anni di retorica del “change” c’è una certa noia al riguardo (se non rabbia), ma è pur vero che un paese che si sente impoverito e che ha mostrato in tutti i modi la sua disaffezione per l’establishment va a caccia di un presidente del cambiamento. Su questo Hillary parte invero svantaggiata: Sanders le ha rubato, e con successo, l’etichetta del cambiamento; Trump con la sua improvvisata novità incarna il cambiamento (anche se la sua imprevedibilità fa spesso già venire la nostalgia dello status quo). Hillary con il cambiamento non ha nulla a che fare: è sulla scena politica da più di vent’anni, vive grazie alla macchina clintoniana rodata alla grande da suo marito negli anni Novanta, propone una ricetta rassicurante ma certo non nuova.

 

Ci sono poi gli ostacoli strategici. Con l’invidiabile sintesi dei titolisti americani, Bloomberg dice: Hillary sa che il suo argomento migliore è ancora e solo Trump. Ma come ha scritto Holman Jenkins sul Wall Street Journal, “una campagna ‘ah, ah, siete impantanati con me perché Trump è orrendo’ potrebbe non essere vincente come gli strateghi di Hillary immaginano”. La Clinton deve trovare la sua storia da raccontare, e non può essere soltanto un fact-checking meticoloso delle improvvisate trumpiane come non può essere soltanto la storia di una donna che è caduta tante volte ed è arrivata in piedi fin qui – questa è una storia bellissima, in realtà, ma non ha convinto molto finora, difficile che lo farà adesso. Il team di Hillary è già al lavoro, e lei, che per trovare un cuore alla sua candidatura punta alla sfumatura rosa inizia dicendo: se potessi viaggiare nel passato e dire soltanto a una persona che sono la prima candidata donna alla presidenza della storia americana, andrei da mia madre.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi