I leaders di Izquierda Unida, Alberto Garzon, e di Podemos,Pablo Iglesias (foto LaPresse)

Se vince Podemos finiamo come Caracas. Lo spauracchio spagnolo

Eugenio Cau
I cittadini hanno ormai interiorizzato l’idea che il prossimo governo, se ci sarà, comprenderà una coalizione tra due o più partiti. La campagna elettorale spagnola vive all’ombra della crisi venezuelana

Roma. Il primo ministro spagnolo, Mariano Rajoy, ha rivelato all’inizio della settimana lo slogan della campagna del Partito popolare (Pp) per le elezioni del prossimo 26 giugno: “A favor”, a favore della stabilità e della governabilità e contro le “linee rosse” che finora hanno reso il leader conservatore, vincitore del maggior numero di seggi alle elezioni del 20 dicembre scorso, una specie di paria nel panorama politico spagnolo, rendendo impossibile la formazione di qualsiasi alleanza. Il messaggio è positivo e propositivo: se siamo “a favore” del futuro del paese abbattiamo gli steccati che ci dividono. A rigor di slogan, anche Pedro Sánchez, leader e candidato del Partito socialista (Psoe) segue la stessa mentalità. Il suo motto, presentato da qualche settimana, è un semplice “Sí”, stampato bello grande sui manifesti e sulle magliette rosse dei giovani attivisti che fanno da sfondo umano a tutti gli eventi della campagna. Perfino gli antisistema di Podemos, dopo l’alleanza con Izquierda unida (Iu), il partito della sinistra estrema, hanno adottato un nuovo nome all’apparenza più accomodante: Unidos Podemos. Con i sondaggi che sembrano restituire un quadro politico simile a quello delle ultime elezioni (Pp primo partito senza maggioranza, centristi di Ciudadanos quarti e un’importante novità: Unidos Podemos che rischia di arrivare secondo sul Psoe, trasformandosi nel primo partito della sinistra spagnola), i cittadini hanno ormai interiorizzato l’idea che il prossimo governo, se ci sarà, comprenderà una coalizione tra due o più partiti. Ma nonostante i bei proclami degli slogan, i toni si stanno semmai indurendo, e la campagna elettorale spagnola vive all’ombra della crisi venezuelana.

 

L’ammirazione e i rapporti, fatti di viaggi frequenti e di trasferimenti di milioni di euro ad associazioni e ong, tra la cupola di Podemos e il regime chavista sono noti da sempre. Lo è, allo stesso modo, la volontà di Pablo Iglesias e dei suoi, mai resa del tutto esplicita ma nemmeno nascosta, di trapiantare in Europa parte delle lezioni politiche e sociali apprese in Venezuela. Ma solo dopo che in questi ultimi mesi la crisi del regime socialista di Caracas si è mostrata in tutta la sua gravità, trasformandosi non solo in uno scontro politico ma in una crisi umanitaria, i politici spagnoli sembrano essersi accorti di cosa può significare avere un partito filochavista che si prepara a diventare la seconda o terza forza del prossimo Parlamento. In un articolo pubblicato ieri su Politico Europe, Diego Torres ha scritto che “l’establishment spagnolo vive nel terrore dei suoi chavisti locali”. Alle critiche di Rajoy, da sempre duro con Podemos, si sono unite quelle di Albert Rivera, che la settimana scorsa ha viaggiato a Caracas per portare il suo sostegno all’opposizione al regime, attaccando Podemos per non aver votato il mese scorso una mozione parlamentare che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici venezuelani che è stata approvata all’unanimità da tutti gli altri partiti. Perfino Sánchez del Psoe, sempre leggermente ambiguo nei confronti di uno dei regimi simbolo della sinistra latina, ha espresso la sua condanna e messo in guardia dal contagio venezuelano.

 

Podemos ha trascorso la campagna elettorale dell’anno scorso a moderare il suo messaggio ma oggi, dopo l’alleanza con i comunisti di Iu, ha puntato con più decisione sulla sinistra estrema per privare il Psoe e il suo leader dell’egemonia sulla sinistra. Così ormai il termine di paragone per chi immagina una Spagna governata dagli antisistema non è più la Grecia fallita di Tsipras, ma il regime di Caracas. Non solo perché anche la politica segue i cicli della cronaca. Il contagio venezuelano, che non significa una crisi umanitaria in Spagna ma il trapianto di stili di governo incompatibili con una democrazia europea e di ricette economiche capaci di rovinare la fragile ripresa spagnola, non è un’ipotesi impossibile.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.