Un combattente dello Stato islamico

Il trend degli attentati dello Stato islamico

Daniele Raineri
Più stragi e meno offensive militari, quindi Is è più debole? C’è chi dice che non è così. I piani di rappresaglia sono cominciati anni fa.

Roma. Lo Stato islamico punta più sul terrorismo e meno sulle manovre militari – perché non può più permettersele. E’ una buona teoria appoggiata dai numeri che ha conquistato anche la prima pagina del Wall Street Journal cinque giorni fa, ma ha bisogno di un correttivo. Ecco i dati. Il gruppo estremista sta passando da una sconfitta all’altra e ha perso il 45 per cento del territorio in Iraq e il 20 per cento in Siria. Allo stesso tempo, aumenta il numero di attentati suicidi che riesce a compiere ogni mese e che è quasi raddoppiato negli ultimi sei mesi, secondo i dati che il gruppo stesso diffonde con orgoglio e regolarità nella seconda pagina del suo settimanale al Naba.

 

L’ultimo fallimento sul campo è arrivato ieri, quando l’esercito iracheno appoggiato dall’aviazione americana ha ripreso Rutba, la città che controlla il tratto di autostrada che dalla capitale irachena Baghdad porta verso il confine con la Giordania. Offensive in grande stile come quella del 2014 contro il cantone curdo di Kobane, nel nord della Siria, non sono più possibili e oggi lo Stato islamico riesce a stento a tenere le zone in cui è più forte: Mosul, Tal Afar, Falluja e Raqqa. E’ regredito all’anno 2012, quando era specializzato in ondate di attacchi con autobomba. Fu una delle prime decisioni tattiche prese dal capo Abu Bakr al Baghdadi: mandare dieci autobomba a colpire in parti diverse dell’Iraq nello spazio di una mattina, per dare l’idea di una minaccia ubiqua e di un potere troppo forte per essere fermato. Un concetto che il Pentagono conosce con il nome di “shock and awe”, spezzare la volontà del nemico con una dimostrazione di forza superiore – fu applicato nella campagna aerea contro Saddam Hussein nel 2003.

 


L'esercito iracheno attacca Stato islamico a Fallujah (foto LaPresse)



L’enfasi sugli attentati torna come negli anni dell’ascesa, 2012 e 2013, con due differenze. La prima è che ora lo Stato islamico ha un territorio tutto suo, in cui gode di una relativa impunità. La seconda è che ha allargato la mira all’estero, non ci sono più soltanto Baghdad e Bassora, ci sono anche Bruxelles, gli aerei passeggeri, gli Europei in Francia.

 

L’enfasi sugli attentati quindi torna come negli anni dell’ascesa, 2012 e 2013, con due differenze. La prima è che ora lo Stato islamico ha un territorio tutto suo, in cui gode di una relativa impunità. La seconda è che ha allargato la mira all’estero, non ci sono più soltanto le città irachene come Baghdad, Najaf e Bassora, ci sono anche Bruxelles, gli aerei passeggeri, gli Europei di calcio in Francia. Il fatto che lo Stato islamico abbia un territorio tutto suo da usare come base e retrovia ci riporta all’Afghanistan del 2001, dove al Qaida godeva della protezione dei talebani e riuscì a concepire, organizzare e lanciare l’attacco dell’11 settembre. Gli attentati di Parigi a novembre e di Bruxelles a marzo sono stati preparati in Siria, come dimostrano i video di rivendicazione degli stragisti, che sono stati girati circa un anno fa in una ex base militare siriana finita in mano allo Stato islamico fuori Raqqa e nei giardini pubblici della stessa città che affacciano sul fiume Eufrate.

 

Il saggista americano Max Boot, sulla rivista Commentary, dice che la campagna di autobomba dello Stato islamico in Iraq non è un segno di debolezza, ma di forza. Non bisogna dar retta allo spin dei militari – ovvero al vizio del Pentagono di imprimere una spinta ottimista a tutte le notizie – scrive, ma fare attenzione perché gli estremisti stanno cercando di provocare di nuovo  una guerra civile in Iraq. E il correttivo? E’ questo: non credere che questo stato rimpicciolito sia meno minaccioso. La nuova enfasi sulle stragi sarebbe arrivata lo stesso, anche se non ci fossero state le sconfitte militari e anche se la serie di vittorie fosse continuata: la dimostrazione sta nel fatto che queste operazioni in Europa sono state lanciate anni fa, in qualche caso nel 2013 – quindi ancora prima che il gruppo dichiarasse di essere diventato il Califfato.

 

Sono azioni che non possono essere improvvisate e richiedono mesi di preparazione. Inoltre, uno Stato islamico che investe meno nei combattimenti e più nelle campagne di stragi urbane – quindi nell’attività in cui è sempre stato uno specialista, sin dagli albori nel 2003 – è una cattiva notizia a prescindere da qualsiasi dato sul territorio perduto. Gli analisti militari americani in Iraq, secondo fonti del Foglio, si preparano già alla prossima fase della guerra, quella in cui i santuari dello Stato islamico cadranno, il gruppo si frammenterà e disperderà in tutte le direzioni e comincerà un’insurgency in clandestinità come negli anni della guerra americana in Iraq – e non è per nulla detto che non sarà ancora pericolosa come oggi.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)