Un'immagine diffusa dallo Stato islamico sull'offensiva di Bengasi

Qui sul fronte libico

Daniele Raineri
Lo Stato islamico segue un’interpretazione controversa del Corano, ma di certo ha una lettura impeccabile della politica libica. Il gruppo terrorista capisce che il paese è ancora bloccato in una situazione di stallo per colpa delle due fazioni che lo governano e così pochi giorni fa decide di prendere l’iniziativa e di attaccare per primo.

Misurata, dal nostro inviato. Lo Stato islamico segue un’interpretazione controversa del Corano, ma di certo ha una lettura impeccabile della politica libica. Il gruppo terrorista capisce che il paese è ancora bloccato in una situazione di stallo per colpa delle due fazioni che lo governano e così pochi giorni fa decide di prendere l’iniziativa e di attaccare per primo. Anzi, osa fare l’impensabile e aggredisce il nemico più potente: le ex milizie della città di Misurata. Tanto i due schieramenti che controllano la Libia sono paralizzati dalla loro rivalità, è il ragionamento corretto fatto dagli estremisti – sia il neo esecutivo del presidente Fayez al Serraj a Tripoli sia il governo militarizzato del generale Khalifa Haftar nell’est del paese.

 

Un testimone oculare racconta al Foglio lo stratagemma usato dagli estremisti giovedì scorso per conquistare la guarnigione di Abu Grein, dove più di cento soldati controllano un tratto di autostrada che corre verso Sirte. Gli uomini dello Stato islamico gridano via radio “Ghanima! Ghanima! Allahu Akbar”, ovvero “Bottino di guerra! Dio è grande”, sulle stesse frequenze usate dai soldati. Fingono di essere commilitoni e di essere eccitati dal fatto di avere appena catturato un camion dello Stato islamico e si avvicinano al posto di blocco. A quel punto Khattab al Tunisi, il tunisino che guida il mezzo (è soltanto un nome di guerra), fa detonare il carico di esplosivo, uccide otto soldati e ferisce tutti gli altri. “L’esplosione mi ha fatto volare in aria e ha spezzato in due il kalashnikov che imbracciavo”, dice il testimone. Non avevate sospettato che fosse un attacco? No, abbiamo creduto fino all’ultimo che fossero dei nostri. Approfittando del disorientamento causato dal camion bomba, centinaia di combattenti dello Stato islamico sciamano da tutte le direzioni su Abu Grein, “sono arrivati anche alle nostre spalle”. Quel giorno ci sono altri due camion bomba.

 

Il posto di blocco di Abu Grein è un sito celebre tra gli addetti ai lavori perché sono quelle colonne d’Ercole nel deserto dove si spingono i giornalisti stranieri per indicare: “Oltre questa barriera, si entra nello Stato islamico in Libia”. Per un anno è stato un sito relativamente tranquillo, ma ora è inaccessibile. Il gruppo estremista negli stessi giorni ha conquistato anche un altro svincolo strategico, Waddan, che si può raggiungere dopo una corsa lunga in macchina verso sud, fino ad arrivare oltre la zona dei pozzi di petrolio. Le forze di Tripoli e di Misurata pensavano di usare Abu Grein come trampolino per fare il salto verso Sirte e progettavano di tenere la posizione a Waddan per intercettare gli islamisti in fuga dopo la vittoria in città. Ora hanno perso entrambe quelle posizioni strategiche, dopo avere passato mesi a parlare di operazioni imminenti per sradicare lo Stato islamico dalla Libia.

 

Incontriamo un uomo fuggito dalla sua casa ad Abu Grein perché lo Stato islamico lo stava cercando. “Avevano una lista di persone da rintracciare, passavano di casa in casa, ho lasciato la mia famiglia e ho preso una rotta usata dai contrabbandieri nel deserto per tornare a Misurata”. Lo Stato islamico, quando conquista un posto, sguinzaglia i suoi commissari politici per trovare ed eliminare gli oppositori e gli uomini che lavorano per le forze di sicurezza e in generale per il governo. Il dettaglio della lista rivela che lo Stato islamico prepara questa avanzata su Abu Grein da tempo.

 

Anche il nome dell’operazione è significativa, gli estremisti hanno scelto di dedicarla a un capo ucciso in Siria dagli americani il 25 marzo, Abu al Al Anbari, e hanno scatenato un’offensiva che ha lo stesso nome contro i curdi nel nord dell’Iraq. Questo ordine di attacco contro gli uomini di Misurata arriva dalla stessa centrale, fuori dalla Libia. Il fuggitivo di Abu Grein aggiunge un altro particolare: dice che nelle ventiquattr’ore che ha trascorso nascosto prima della fuga c’erano due siriani dello Stato islamico a fare filmati e a intervistare la gente. Il capo della prigione di Misurata dice al Foglio che tra i suoi prigionieri ci sono anche siriani. La presenza di siriani in quest’area è significativa. Sono specialisti mandati in Libia con compiti precisi. Si tratta anche di un segno che i teatri di guerra sono sempre più mescolati.

 

Se dopo la rivoluzione in Libia del 2011 una fazione avesse ucciso otto soldati di un altro gruppo, avrebbe provocato una reazione sanguinosa e avrebbe scatenato una faida. Oggi non accade. Due giorni dopo l’attacco a tradimento, arriva l’annuncio della creazione di un comando operativo per gestire la campagna che da Misurata muoverà contro lo Stato islamico, ma per ora si tratta di una reazione blanda. Craxi diceva con una battuta che in Italia quando non si vuole fare nulla si fa una commissione parlamentare. I comandi operativi in Libia nascono per l’esigenza di mettere d’accordo gruppi diversi, ma il rischio è quello. Che farete ora che lo Stato islamico ha rotto il patto tacito di non belligeranza con Misurata che perdurava con discrezione dall’anno scorso e vi ha attaccato? Arriverete fino a Sirte? Il generale Mohammed al Ghasri si schermisce, dice che per ora si parla soltanto di riprendere Abu Grein, quindi di tornare al punto di partenza di una settimana fa. E Sirte? Siamo soldati, obbediamo agli ordini, queste sono decisioni politiche.

 

La questione ci riguarda, perché oggi Misurata dice di prendere ordini dal governo di Fayez al Serraj, che a sua volta si coordina con i suoi sponsor internazionali, tra cui l’Italia. Vi sentite al telefono con Serraj da Tripoli? Sì. State tenendo al corrente gli alleati, per esempio il governo a Roma, delle vostre decisioni? Quando arriverà l’ora zero, lo sapranno. Chiediamo a una fonte dentro il comando se gli italiani sono coinvolti più da vicino, oltre che nella condivisione delle mosse militari.  Ci sono italiani a Misurata? “Civili no; militari, non lo posso dire”. Italiani e siriani, entrambi sarebbero a Sirte in forma discreta, a combattere sui due fronti opposti della stessa guerra.

 

Gli uomini di Misurata si preparano a riprendere il terreno perduto. Arrivare fino a Sirte è un’altra cosa. “Del resto se l’occidente volesse, distruggerebbe lo Stato islamico a Sirte in un’ora, con le bombe”, dice un fuggitivo di Sirte arrivato a Misurata l’anno scorso. Sottinteso, il pensiero di tutti: perché quindi dovremmo farlo noi?

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)