Dentro la diga di Mosul

Daniele Raineri

In anteprima, le autorità curde ci portano nei tunnel della struttura per dirci che “tecnici e soldati italiani non servono e gli americani fanno troppo allarmismo”.

Mohsen Hassan Yakoub è il vicedirettore della diga di Mosul. Prende penna e taccuino, si china sul cofano della macchina e spiega al Foglio perché la diga di Mosul è sempre presentata sui media, specialmente quelli americani, come una catastrofe in attesa di accadere presto. “Ci sono quattro strati di gesso sotto di noi. E tra questi quattro strati ci sono strati di altro materiale, vuoi argilla, vuoi pietra calcarea, e roccia sedimentaria, bauxite e dolomite. Se l’acqua del bacino qui sopra fa pressione di lato sugli strati di gesso, siccome sappiamo che il gesso è solubile, crea delle fessure e dei vuoti. A lungo andare questo produce un effetto ‘togliere il tappeto da sotto i piedi’ perché può dissolvere gli strati su cui tutto poggia e minaccia di far collassare l’infrastruttura, che in questo caso è la diga più grande dell’Iraq”. Il fatto è, dice il vicedirettore che lavora qui da trentacinque anni, che gli ingegneri sono al corrente di questo problema fin da prima della costruzione della chiusa e ci sono contromisure per allontanare il pericolo. Offre questa lectio improvvisata in piedi in mezzo a uno spiazzo accanto a uno dei due muri di cemento che contengono il canale della diga, sono così alti da rimpicciolire per contrasto tutto quello che è nei paraggi: strade d’accesso, cantiere, macchinari, operai e noi. Più sopra ancora c’è la mantellata della diga, che corre da ovest verso est per tre chilometri. C’è un singolo soldato curdo di scorta che ha l’aria di non ricordare più come è fatta la guerra e che – nonostante sia di stanza a soltanto un chilometro da qui – non era mai entrato nel corpo della diga e in silenzio continua a scattarsi selfie. Nello spiazzo gli operai sono attorno a un paio di trivelle: “Ci sono milleduecentocinquanta sensori, e gli americani durante la guerra ne hanno collegato un paio di centinaia a internet, possiamo vedere cosa succede in diretta sul computer. I sensori ci avvertono dove si aprono i buchi. Noi li raggiungiamo con le trivelle e iniettiamo un mix di cemento con additivi, che rende stabile l’area che si stava indebolendo”. Un rattoppo continuo, “ventiquattr’ore al giorno, sette giorni alla settimana. Un cantiere permanente di quattrocento persone. E la diga così diventa sempre più solida ogni anno che passa”.

 

Quindi i lavori affidati alla ditta italiana Trevi sono necessari e urgenti oppure no? “No. E nemmeno i vostri soldati, perché i nostri peshmerga sono in grado di difendere la diga già adesso, e anche prima quando lo Stato islamico era a soltanto tre chilometri. Del resto sono stati loro a riprenderla”. Gli occhi del direttore brillano, lui è curdo. E allora cosa vengono a fare? Silenzio. “Forse a portare nuova tecnologia”.

Operai al lavoro sotto la diga (foto di Daniele Raineri)

La settimana scorsa il sito della tedesca Deutsche Welle ha pubblicato un articolo  in cui altre fonti irachene che lavorano alla diga deridono l’allarmismo americano a proposito della diga di Mosul e gli inviti a lasciare deserte le sponde per almeno sei chilometri su entrambi i lati del fiume Tigri, pena il rischio di un disastro da un milione di morti. Il pezzo cita anche un professore di Baghdad che solleva un punto: “Gli americani dispongono di dati che noi non abbiamo grazie ai sensori che hanno piazzato, perché loro non li condividono con noi, e forse per questo sono allarmisti”.  Il vicedirettore smentisce: “Abbiamo tutti i dati a disposizione, anche quelli che hanno gli americani”.

 

Gli ingegneri iracheni pensano che la campagna di allarme sia stata montata dagli americani per fare paura allo Stato islamico. La diga come arma catastrofica ha sempre avuto una certa presa da queste parti. Un giornalista del sito curdo Rudaw, Paul Iddon, scrive che durante i dieci anni di guerra contro l’Iran negli anni Ottanta il rais iracheno Saddam Hussein chiese ai suoi generali di progettare una serie di bombardamenti contro le dighe a monte di Teheran. Nel 1991 il Pentagono studiò alcuni piani di rappresaglia contro Saddam se avesse usato armi chimiche contro i soldati americani e fra gli scenari proposti c’era anche il bombardamento delle dighe per creare ondate distruttive.

 



Il tunnel d’ingresso sotto la diga di Mosul (foto Daniele Raineri)


C’è da infilare una postilla etnica. La diga è in territorio curdo, ma i lavori sono pagati dal governo centrale di Baghdad, che quassù ha pochi fan. Per arrivare alla struttura ci sono controlli occhiuti da parte dei Zerevani, la polizia militare curda, che è gelosa di questa striscia di territorio e impedisce le riprese lungo la strada, per non far vedere i villaggi in precedenza abitati dagli arabi e ora scomparsi. L’equilibrio idrico, politico e militare è precario. Per esempio, il livello dell’acqua nel bacino sopra le nostre teste in questo momento è basso e quindi poco pericoloso perché le turbine continuano a produrre elettricità, che va in gran parte a Mosul, occupata dallo Stato islamico e ancora abitata da un numero molto alto – ma è difficile essere precisi a questo punto – di civili. Il governo di Baghdad paga la ristrutturazione di una diga sorvegliata dai curdi che fornisce energia elettrica allo Stato islamico. E’ qui che i parà della Folgore stanno per infilarsi nei prossimi mesi.

Uno dei bacini davanti alla diga (foto Daniele Raineri)


I quattro strati di gesso solubile della diga spiegano perché quando lo Stato islamico l’ha presa per dieci giorni nell’estate del 2014 sono cominciati gli allarmi. Se i tecnici non tengono d’occhio i sensori e gli operai non mettono mano alle trivelle e non iniettano il cemento, la diga comincia a slittare verso la sua fine. Ma tutti avevano abbandonato la zona per non essere catturati o uccisi. “In realtà il pericolo non diventerebbe reale subito, o meglio, non abbiamo la capacità di prevedere entro quanto accadrebbe, sarebbe un procedimento lento”, dice Yakoub. E se l’avessero fatta saltare in aria? “Non sarebbe un’operazione così semplice. La mantellata sopra di noi è tutta argilla, sarebbe necessario moltissimo esplosivo e non avrebbe effetti diretti sulle parti in cemento, per quelle ci vorrebbe altro esplosivo”. Durante la guerra con gli americani continuavate la manutenzione? “Non abbiamo mai smesso per un giorno”. Anche nel 2003, quando è caduta la capitale Baghdad? “Mai”.

 

L’ingegnere guida la Toyota – l’onnipresente pickup Toyota – verso un bacino d’acqua che si allarga tranquillo sotto le quattro turbine che creano elettricità. Ma era questo il posto più intelligente per tirare su la diga più grande del paese, che se crolla si crea un’ondata pericolosa di acqua e fango per centinaia di chilometri, capace secondo le stime di raggiungere la capitale? Oppure fu un capriccio di Saddam Hussein, il rais iracheno che fu a volte tradito dalla megalomania dei suoi piani politici e militari?  “I progetti per creare una diga qui sono cominciati negli anni Cinquanta, molto prima, e furono presentati un po’ da tutti, americani, inglesi, svedesi, italiani, russi, francesi. Poi negli anni Settanta uno studio svizzero dimostrò che era possibile costruirla, a patto che fosse progettata in un certo modo e che fosse seguita con costanza da tecnici e operai”. Non è costoso tenere in piedi questo cantiere? “La diga si ripaga da sola. Regola e fornisce acqua a tutte le grandi città del paese, fino al sud, può produrre 7.500 megawatt di elettricità, a seconda di quanto è alto il livello del lago là sopra, dall’altra parte della massicciata”. 

L’ufficio di un ingegnere durante il suo turno di guardia (foto laPresse)

Il controllo dell’acqua è una delle ossessioni dell’Iraq, che è un paese arabo benedetto dalla presenza dei due fiumi più importanti del medio oriente e che però soffre la sete. A febbraio una fonte governativa del Kuwait, il piccolo stato che confina a sud con l’Iraq, aveva magnificato il progresso del suo paese rispetto ai vicini e aveva detto, in via confidenziale: “Mi chiedo sempre come sia possibile che siamo ancora noi, senza fiumi, a vendere l’acqua potabile che otteniamo dai nostri desalinizzatori marini ai nostri vicini in Iraq, e non il contrario. E’ chiaro che hanno speso troppo in guerre”.

 

Yakoub entra in un tunnel che porta dentro e sotto la diga, avanza per un centinaio di metri, scende di un livello, supera l’ennesima trivella che sta perforando alla ricerca di una carie nel gesso da qualche parte più sotto. Divaga sulla qualità delle iniezioni di cemento, che è un mix delicato e specifico per ogni diverso caso di rattoppo, l’argomento lo accende più che la politica nazionale, più di curdi, iracheni e Trevi. “Per ora c’è soltanto uno di loro già qui, prima devono fare il campo in cui staranno i lavoratori, poi cominceranno i lavori. Prima della fine di agosto non se ne parla”. L’acqua che aiuta le perforazioni scorre fra gli stivali di gomma, i tunnel in discesa hanno gradoni di cemento e corrimano per facilitare l’avanzata. Dietro a una curva, la vista incongrua dell’ufficio di un ingegnere in turno di guardia: scrivania, telefono, quattro sedie di plastica. Poco oltre,  una postazione per il sujud, la prosternazione musulmana, una lastra di metallo poco sollevata sul pavimento, per evitare il ruscelletto di scolo, e coperta da un tappeto.

  Foto: un soldato peshmerga curdo davanti alla diga e (sotto) il vicedirettore Mohsen Hassan Yakoub, che lavora alla struttura da 35 anni (foto Daniele Raineri)


 

Un ingegnere iracheno che lavorò alla costruzione della diga e oggi insegna in Svezia, Nadhim al Ansari, dice che i lavori per rendere la diga meno pericolosa a lungo termine sono inutili perché l’unica soluzione definitiva è completare i lavori per la costruzione di una seconda diga, più a valle, nell’area di Badoush, ancora più vicina a Mosul. Questa seconda diga disinnescherebbe per sempre il rischio della prima. Per ora Baghdad è molto riluttante a spendere i 10 miliardi di dollari necessari a finire Badoush. Soprattutto, il cantiere si trova ancora dentro il territorio controllato dallo Stato islamico. Anzi, corrisponde al cuore del terreno di caccia preferito dal suo capo, Abu Bakr al Baghdadi, che proprio a Badoush divenne comandante e poi scalò i vertici dell’organizzazione. A Badoush c’è anche la prigione, il primo bersaglio attaccato dallo Stato islamico durante la conquista della città, a cui si dice abbia partecipato Baghdadi stesso, all’alba del 5 giugno 2014. Anche in questo caso, la soluzione a lungo termine per l’Iraq passa prima per la fine dello Stato islamico come esercito e come leadership in grado di esercitare un controllo pieno sul territorio. Senza quel passo necessario, tutto il resto in Iraq rimane appeso, e tutto va riaggiustato giorno dopo giorno per evitare cedimenti finali.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)