Il giornalista Shafik Rehman

Nel caos del Bangladesh non si può criticare l'islam ma nemmeno il governo

Giulia Pompili
L'arresto del giornalista Shafik Rehman è solo l’ultimo di una lunga serie nel mondo del giornalismo bengalese

Roma. In Bangladesh lo conoscono tutti, Shafik Rehman. Ha un’aria simpatica, veste con camicie sgargianti e indossa occhiali da vista ton sur ton. Oggi che ha ottantadue anni fa fatica a camminare, ma il suo sorriso è famoso: ha presentato numerosi talkshow per la tv bengalese, suona la chitarra, è stato tra i principali promotori dell’introduzione in Bangladesh della giornata di San Valentino. E poi Rehman intorno alla metà degli anni Ottanta ha fondato il settimanale – trasformato in quotidiano – Jai Jai Din, una pubblicazione censurata durante la dittatura di Hussain Ershad (l’uomo che nel 1989 introdusse nella Costituzione di Dacca l’islam come religione di stato) ma che ha reso Rehman una figura preminente della società civile bengalese. Sabato scorso, al mattino, due poliziotti in borghese si sono finti giornalisti e sono riusciti a entrare nella casa di Ershad di Dacca e a portarlo via. Rehman, che ha una laurea in Economia, e la nazionalità per metà britannica avendo vissuto a lungo in Inghilterra durante la guerra di liberazione del Bangladesh, è sposato con Taleya Rehman, ed è stata lei a raccontare la dinamica dell’arresto alla stampa (Taleya Rehmanp è un altro personaggio interessante della storia: ha un fellowship alla London School of Economics, ha lavorato alla Bbc per oltre trent’anni ed è una famosa attivista per i diritti civili del Bangladesh).

 

Poco dopo l’arresto di sabato è stata diffusa l’accusa contro Rehman: secondo le autorità bengalesi, il giornalista avrebbe partecipato alla cospirazione per rapire Sajeeb Wazed Joy, il figlio del primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina. Joy è un quarantaquattrenne rampante figlio della rivoluzione, emigrato in America. Ha la cittadinanza statunitense, ha accompagnato la madre durante l’incontro con i coniugi Obama nel 2013, e usa spesso Facebook per accusare il principale partito dell’opposizione, il Partito nazionalista (Bnp), di cospirazione contro di lui e la sua famiglia. L’indagine contro il complotto per il suo rapimento – scrive Al Jazeera – nasce proprio da un suo post su Facebook del 2015, quando scrisse che la corte di New York aveva condannato un attivista del Partito nazionalista per aver comprato dall’Fbi alcuni dossier su di lui. Ma qui le cose si fanno complicate: la Lega Popolare Bengalese (Awami League), partito al governo con Hasina, è accusata dall’opposizione di limitare la libertà d’espressione e di stampa. L’opposizione del Partito nazionalista, guidato oggi da Khaleda Zia, è appoggiato da Jamaat, l’Associazione islamica bengalese. Shafik Rehman – che ha espresso più volte una visione moderata dell’islam – è consigliere di Zia.

 


   

Sajeeb Wazed Joy


 

Ieri le autorità di Dacca hanno fatto sapere di aver trovato, a casa dell’ottantaduenne giornalista arrestato sabato, i documenti dell’Fbi che dimostrerebbero il suo coinvolgimento sul dossieraggio contro il figlio del primo ministro. Il partito d’opposizione e Jamaat hanno commentato l’arresto di Rehman accusando il governo di usare la giustizia per scopi politici. In effetti quello di Rehman è l’ultimo di una serie di arresti nel mondo del giornalismo bengalese. Ad aprile l’Alta corte di Dacca ha dato il via a 72 procedimenti penali promossi da sostenitori del governo contro Mahfuz Anam, direttore del più famoso quotidiano del Bangladesh in lingua inglese, il Daily star, che criticava la Lega. Rischia 175 anni di prigione. Anche Matiur Rahman, direttore del quotidiano Prothom Alo, ha a suo carico 25 processi per diffamazione. Mahmudur Rahman, direttore del Daily Amar Desh, è in arresto da tre anni e Shawkat Mahmud, direttore del Weekly Economics Time, è in arresto da otto mesi.

 


Il primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina


 

Secondo la Bbc, dalla scorsa estate i giornali “d’opposizione” subiscono limitazioni sulle inserzioni pubblicitarie, che vale come un boicottaggio di massa da parte delle aziende vicine al governo. Gli attivisti bengalesi, soprattutto online e in lingua inglese, denunciano le pericolose limitazioni alla libertà d’espressione che promuove il governo contro i giornalisti. Ma in Bangladesh le questioni politiche si legano spesso a quelle religiose. Oltre ai giornalisti in carcere o sotto processo, negli ultimi mesi una serie di attacchi e omicidi di blogger secolaristi da parte di estremisti islamici preoccupa la comunità internazionale. Sia il governo di Dacca, sia l’opposizione, sembrano impegnati su altri fronti: nessuno ha ancora preso una posizione chiara e decisa contro l’estremismo islamico che si sta diffondendo in Bangladesh.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.