Bernie Sanders durante un evento elettorale all’Università del Wyoming (foto LaPresse)

Il maratoneta Bernie Sanders

Paola Peduzzi
La rivoluzione del senatore del Vermont si carica di simboli, testimonial e inni.  Il viaggio all’indietro fino a Brooklyn, dove il post capitalismo ha trovato una casa

"Cose che non contano: la narrazione, il momentum, le aspettative. Cose che contano: la matematica, i delegati e l’organizzazione”. Così ha tuittato dopo il voto alle primarie in Wisconsin di martedì scorso Daniel Pfeiffer, stratega della comunicazione di Barack Obama durante la sua prima campagna elettorale (quella della narrazione, del momentum e delle aspettative, per intenderci) e poi alla Casa Bianca fino all’anno scorso. Pfeiffer consiglia di occuparsi di quel che rileva, del fatto che, come scrive Adam Peck su New Republic, a Bernie Sanders serve “un miracolo” per vincere le primarie, o del fatto che, come ha sottolineato Ed Kilgore sul New York, il senatore del Vermont consolida la sua base ma non la allarga, è molto forte tra i maschi giovani (le donne si sono un po’ allontanate, tranne le giovanissime) e tra i maschi in generale, bianchi, ma probabilmente questo non è sufficiente per insidiare Hillary Clinton adesso né eventualmente un candidato repubblicano a novembre.

 

Pfeiffer va incontro al memo “facts and path” fatto circolare dalla capo della campagna clintoniana, Robby Mook, mentre Sanders vinceva in Wisconsin: “detto chiaro”, Hillary sta vincendo il voto popolare; quando l’affluenza è alta, Hillary vince; il conteggio dei delegati è dalla sua parte; Hillary è l’unico candidato in grado di battere Donald Trump. Queste sono le cose che contano, dicono i realisti liberal, che scartano anche un’ipotesi che sta prendendo piede nelle masse pro Bernie: scardinare il sostegno dei superdelegati a Hillary (712 in tutto, sono nominati dal partito e alla convention non hanno vincoli: possono sostenere chi vogliono), e portarli dalla parte della “vera rivoluzione”.

 

Che il pragmatismo possa vincere sulla purezza è la scommessa delle primarie democratiche, e fin qui concretezza ha voluto che Hillary smettesse quasi di occuparsi del rivale Sanders per dedicarsi al rivale Trump. Ma la sconfitta in Wisconsin è la sesta nelle ultime sette sfide (Hillary ha vinto soltanto in Arizona), un “reset”, come ha titolato il Washington Post: i “piccoli” schiaffetti di Bernie all’ex first lady messi tutti insieme fanno massa, sono pressoché ininterrotti, e i clintoniani non sono riusciti ancora a prendere aria. Ora ci sarà un rallentamento del ritmo delle primarie in vista del 19 aprile, quando si voterà a New York, un periodo utile per mettere in ordine le idee, ma non è affatto detto che questo tempo risulterà favorevole a Hillary. Anzi, più il tempo passa più diventa quasi insormontabile il problema che lei ha da sempre: non piace. Non ce n’è. Non piace. E così il realismo liberal si scontra con Bernie Sanders, e ne esce ferito.

 


La candidata democratica Hillary Clinton durante la sua campagna elettorale nel Wisconsin


 

Negli ultimi giorni è diventato virale uno spot di Bernie concepito apposta per colpire al cuore i realisti: sulle note di “Revolution” di Diplo, grande sostenitore del senatore del Vermont, si alternano immagini storiche di missili spaziali e discorsi indimenticabili con i sostenitori di Bernie di oggi, giovanissimi ma non solo (la signora con i capelli bianchi e l’aria sognante conquista un tutto schermo solitario), sorridenti, che dipingono, che saltano, che vanno casa per casa, che urlano quando Sanders entra con la testa incassata e la mano sventolante. “It’s a revolution”. Assieme al logo degli occhialetti di Sanders, lo slogan rivoluzionario è contagioso: “Quando inizia il giorno e quando finisce, quando il sole si alza e quando il sole si abbassa, i volontari e i sostenitori in tutto il paese rafforzano questa rivoluzione politica. Per questo vi ringraziamo”.

 

A marzo, Sanders ha raccolto 44 milioni di dollari attraverso piccole donazioni via internet (piccole donazioni, vi ricorda qualcuno?), quando Hillary ne ha raccolti 29 e mezzo, interrompendo spesso il tour elettorale per partecipare a eventi di fundrising (l’ultimo nel Bronx). “Non ditelo alla signora Clinton – ha ironizzato Sanders – perché diventa un po’ nervosa”. Tanto nervosa che due giorni fa l’ex first lady, in un’intervista con Glenn Thrush di Politico, ha detto di non essere “nemmeno sicura che Sanders sia un democratico”. Scagliare la purezza in faccia al candidato puro non pare una strategia azzeccatissima, e Bernie ha ragione quando dice, gongolando, che il tasso di nervosismo in casa Clinton è alle stelle. E anche le accuse aumentano, da giorni i due candidati si attaccano su chi sia “qualificato” per fare il presidente, con toni acidi da insofferenza incontenibile.

 

Le primarie a New York saranno un momento decisivo. Ora, ce ne sono già stati tanti di momenti decisivi, dal Super Tuesday in poi, eppure non s’è deciso niente, ma il tempo scorre e il realismo a un certo punto dovrà fare i conti con se stesso. Hillary Clinton è stata senatrice a New York, è la sua patria di adozione, una casa in cui pretende di essere accolta con calore e gratitudine. Bernie Sanders è nato e cresciuto a New York, per la precisione a Brooklyn (where else?), a Flatbush, prima di trasferirsi nel Vermont dove si è stabilito alla fine degli anni Sessanta. Sanders abitava in una casa di tre stanze, figlio di una casalinga e di un immigrato polacco che faceva il rappresentante, ebreo, “ero consapevole quando ero ragazzino che tutta la famiglia di mio padre fosse stata uccisa da Hitler”, dice Sanders. Non giocava nella squadra di basket del liceo, anche se gli sarebbe piaciuto, ma era bravo nell’atletica, “correva e correva”, come scrisse Politico Magazine in un suo ritratto dell’anno scorso: era forte sulle lunghe distanze. Nel luglio dello scorso anno, Jason Horowitz del New York Times è andato nel quartiere di Sanders a Brooklyn, ha incontrato ex compagni, ex vicini, ex amici che sono fieri di ascoltare il senatore in tv “con il suo accento di Brooklyn” e che hanno raccontato come buona parte delle sue idee su diseguaglianze, capitalismo, opportunità siano nate lì, mentre accudiva una madre sempre più malata e sosteneva che le idee socialiste di suo padre fossero “un po’ eccentriche”.

 


 

Sostenitori di Sanders a Brooklyn (foto Daily News)

 


 

Sull’ultima copertina di Hollywood Report, dedicata a New York, ci sono Sanders e Spike Lee, con il titolo “2 Guys from Brooklyn”. Lee intervista Bernie, e ha girato uno spot per lui che viene pubblicato oggi. “Mia moglie sta con Hillary – dice il regista – Quindi c’è un po’ di divisione in casa. Ma i miei due figli stanno con il loro papà”. A unire i due ragazzi from Brooklyn ci sono l’origine umile, i pochi soldi in casa di quando erano ragazzi, l’ironia e l’intento rivoluzionario. “Spike, con tutto il rispetto per la signora Clinton e per tutti gli altri – dice Sanders – è tardi per la politica e l’economia dell’establishment. I problemi di questo paese sono seri, e quello di cui abbiamo bisogno è creare un movimento politico, che io chiamo rivoluzione politica, in cui milioni di persone si uniscono”. Una coalizione?, chiede Lee. “Assolutamente una coalizione, che si basa sui sindacati, sui diritti civili, sui movimenti per le donne, per gli omosessuali, e che dica ai miliardari che no, non possono avere tutto”.

 

Lo chiamano post capitalismo. Sull’ultimo numero del New York, c’è il racconto di Etsy, il celebre sito in cui ci si scambia oggetti fatti a mano e vintage da tutto il mondo, che è il simbolo esatto dell’universo di Sanders (il fondatore, Rob Kalin, dice che ha scelto un nome che non vuol dire niente perché voleva partire da zero e perché aveva visto il film “Otto e mezzo” e gli piaceva che tutti dicessero “e, sì?”). Si tratta di un’operazione peer-to-peer, Etsy guadagna 20 centesimi per ogni prodotto messo in vendita e il 3,5 per cento di ogni transazione (al momento il catalogo comprende 35 milioni di prodotti venduti da 1 milione e seicentomila venditori e comprati da 24 milioni di clienti attivi). Per tenere in piedi questo negozio, servono 819 dipendenti che lavorano in quello che il magazine newyorchese definisce “un confortevole welfare state privato”: pasti gratis, corsi di aggiornamento continui (che comprendono anche il lavoro a maglia), persino un solerte ragazzo con i capelli rosa che gonfia le ruote della bici quando serve. Ogni dipendente ha 40 ore pagate l’anno che deve utilizzare per fare volontariato, Etsy copre il 100 per cento delle spese sanitarie e paga almeno il 40 per cento in più del salario minimo locale. Soltanto un mese fa, è stato annunciato un permesso di maternità/paternità “senza precedenti”, 26 settimane per uomini e donne, applicabili per figli naturali, adottati o avuti con la surrogata. Soprattutto Etsy non è “interessato alla profittabilità”, pur essendo quotato in Borsa (al momento dell’esordio è stato fissato il valore a 4 miliardi di dollari).

 

Etsy è una filosofia, al punto che il coinquilino del fondatore, Matt Stinchcob, che ha lavorato nella società anche quando lo stesso Kalin se n’è andato, ha fondato una business school post capitalista, etsy.org, che punta alla ricerca della “cultura permanente”, una specie di cultura business oriented in salsa New Age. “Saper fare affari non è la cosa più importante – dice – le relazioni personali sono importanti. Quando l’azienda cresce, la domanda è sempre: come fai a rimanere piccolo? Abbiamo perso un po’ della nostra natura selvaggia, certo, ma ci siamo sviluppati in modi che sono ancora più importanti”. L’attuale ceo di Etsy, Chad Dickerson, dice che creare “un’economia con l’essere umano al centro” è l’unica visione plausibile per il mondo oggi, e soprattutto questa non dovrebbe essere un’alternativa a un’economia altrimenti gestita e dominata da altri poteri: dovrebbe essere “l’economia”, l’unica.

 

C’è tutto Bernie Sanders in Etsy, o viceversa, ma come scrive anche l’autore dell’articolo del New York: è davvero sostenibile un’idea così, o è un’eccezione temporanea? Sono le stesse domande che ci si pone davanti a Sanders, che non riesce quasi mai a fornire dettagli concreti alle sue idee (ha appena rilasciato un’intervista disastrosa al New York Daily News), ma che con il suo piglio da maratoneta rivoluzionario sembra quasi non avere nemmeno bisogno di risposte.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi