L'ex presidente di Chile Trasparente Gonzalo Delaveau

C'è sempre uno più puro che ti epura. I Panama Papers fanno collassare Transparency International

Luciano Capone
Il presidente cileno della Ong che lotta contro la corruzione e fa la morale a mezzo mondo sarebbe legato ad almeno cinque società offshore, stando ai leak. E dalla casa madre arrivano i primi distinguo.

A qualche giorno dall’esplosione dello scandalo “Panama Papers” arrivano le prime dimissioni, assieme a quelle del premier islandese. Però, ironia della sorte, non riguardano nessuno degli altri uomini politici, funzionari o capi di stati a vario titolo coinvolti, ma il responsabile di una delle più importanti organizzazioni mondiali che lottano contro la corruzione. Il presidente di Chile Transparente, la sezione cilena di Transparency Internacional, si è dimesso dopo che la pubblicazione dei documenti trafugati dallo studio legale panamense Mossack Fonseca hanno mostrato il suo legame con almeno cinque società offshore: “Gonzalo Delaveau ha presentato le dimissioni da presidente di Transparency Cile, che sono state accettate dal comitato esecutivo”, ha comunicato l’organizzazione su Twitter.

 

 

La casa madre, Transparency International, ha dichiarato che “Anche se Delaveau non è accusato di attività illegali, e potrà essere in grado di spiegare le sue attività, per noi non è questo il punto. Non tutte le società segrete sono illegali, ma molte sono usate per nascondere flussi di denaro e sostenere atti di corruzione”, rimarcando però che “è importante notare che appoggiamo totalmente Chile Transparente e i suoi seri sforzi per combattere la corruzione in Cile. Le azioni di una persona non devono ricadere sull’intera sezione”.

 

L’imbarazzo della Ong è notevole soprattutto perché, poco prima che tra i tanti nomi del leak saltasse fuori il nome del suo responsabile cileno, Transparency aveva chiesto di “rendere immediatamente pubblico il registro dei soggetti coinvolti in società off-shore” per rendere più difficile “per i corrotti nascondere la propria ricchezza illecita in società segrete”. La vicenda è un duro colpo per la reputazione di Transparency, che ogni anno pubblica il Corruption Perceptions Index, il più importante rapporto mondiale sulla corruzione percepita. E c’è da dire che nel suo ranking Panama non è messa così male, è al 72° posto su 168, nella prima metà della classifica e non molto lontana dall’Italia che è al 61° posto, con solo 5 punti di vantaggio (44 è lo score dell’Italia e 39 quello di Panama). Il problema di questo indice, come già avevamo ricordato sul Foglio, è che la classifica di Transparency, che i media riportano come una misura della corruzione, è in realtà un indice della “corruzione percepita”.

 

La percezione della corruzione viene valutata sulla base di domande fatte a uomini d’affari, esperti e analisti su quanto ritengono sia corrotto il tal paese, ma si tratta di una metodologia che pone seri dubbi di validità e utilità. Perché quanto più l’indice di Transparency è diventato importante, tanto più ha smesso di rilevare la percezione della corruzione per trasformarsi in una voce che forma e trasforma la percezione della corruzione in un determinato paese. I mezzi di comunicazione descrivono un determinato paese come iper-corrotto sulla base dell’Indice di Transparency, aumentando la percezione di un paese corrotto che viene poi rilevata nel rapporto dell’anno successivo di Transparency che sua volta viene pubblicato sulle prime pagine dei giornali. E così via. Molti di questi limiti sono stati evidenziati in diversi studi e anche dall’Economist già qualche anno fa.

 

Per capire gli effetti perversi e deformanti che può avere una metodologia del genere, basta pensare a una sua applicazione su un’ipotetica classifica della corruzione percepita tra le Ong: dopo le dimissioni del presidente di Chile Trasparente per il coinvolgimento nella vicenda dei Panama Papers, probabilmente Transparency International farebbe un pessimo risultato rispetto ad altre Ong. E magari la realtà è completamente diversa.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali