Un soldato di guardia mentre alcune donne vanno al voto nella città di Qom, in Iran, lo scorso 26 febbraio (foto LaPresse)

Disillusione iraniana

Tatiana Boutourline
La scrittrice Azadeh Moaveni scrive che oggi a Teheran vede tante ombre: se gli slanci riformatori servissero davvero, l’Iran sarebbe già cambiato. Invece non lo è

La prima volta che vota è una calda giornata di giugno, Azadeh Moaveni guarda il timbro blu sulla carta d’identità e si sente orgogliosa. E’ la corrispondente di Time a Teheran ma è anche un’iraniana cresciuta in California che da due anni ha deciso di tornare, perché “non vuole vivere come una vittima” e pensa di essere abbastanza forte, consapevole e affamata di verità da poterlo fare. Nel 2001 Teheran le appare come una città in cui tutto può accadere: “Un paradiso per giovani intellettuali” dove riformisti islamisti dibattono questioni filosofiche con riformisti laici e le attiviste bussano alle porte nei villaggi per parlare dei diritti delle donne. Sono gli anni di Mohammed Khatami e l’Iran è una delle più belle storie da raccontare. Mentre gli altri nella regione vivono in un mondo senza politica, a Teheran le donne hanno ripreso a mettersi il rossetto, le antenne satellitari sono ubique, nascono riviste e quotidiani, i ragazzi fanno la fila davanti ai chioschi per acquistarli e la notizia è che sono spuntati uomini nuovi con il mito di Karl Popper e la barba curata come un prato inglese. Azadeh ha 24 anni, di giorno intervista ayatollah, dissidenti e direttori di giornali, la sera girovaga tra concerti underground, feste ad alto tasso alcolico e pièce sperimentali che passano da Molière alle metafore sul baseball. Pensa che l’Iran sia avviato verso un processo di cambiamento irrevocabile, plaude alla circostanza che questa svolta avvenga sotto i suoi occhi e senza intrusioni occidentali, spinta da cittadini e leader illuminati (“un misto tra Vaclav Havel e l’imam Musa al Sadr”, scrive). Le elezioni rappresentano l’ennesimo passo nella giusta direzione: la rivoluzione del 1979 da festa si è trasformata in lutto, il funerale delle illusioni della generazione di suo padre, ma forse l’Iran può ancora salvarsi. Moaveni racconta i processi in cui avvocatesse che non abbassano lo sguardo rappresentano le famiglie di studenti uccisi dalle milizie e si convince che a Teheran c’è di nuovo posto per i sogni. Votare significa tuffarsi nel flusso della storia, riannodare i fili tra il “prima” e il “dopo” e, quando fatica a prendere sonno, perché nell’aria c’è tanta di quell’energia che potrebbero scoppiare fuochi d’artificio per autocombustione, resta sveglia a pensare che “la storia non è fatta da leader carismatici, ma dalle decisioni quotidiane di persone normali che scelgono di non avere paura”. Signore che portano a spasso il cane, studenti che bisbigliano parole proibite sotto i platani, fanciulle spettinate, rockband, artisti d’avanguardia, sguardi complici nei taxi e mani furtive che si cercano nei parchi. Tutto ha un senso più profondo e ciascuno un ruolo.

 

Per trovare il suo, Moaveni cerca di affrancarsi dalle categorie di suo padre che ha lasciato l’Iran prima della Rivoluzione e “contempla un viaggio nella madrepatria con lo stesso disgusto con cui ipotizzerebbe una vacanza in Corea del nord”. Rimane accovacciata per ore su un tappeto ad ascoltare le elucubrazioni di ayatollah e seminaristi, inanella interviste su interviste, indaga l’edonismo dei suoi coetanei alle feste techno-ashura, decide di non rifarsi il naso, approfondisce la sua conoscenza dell’islam e prova con tutte le sue forze a mettersi al riparo tanto dai luoghi comuni occidentali quanto dalla mostrificazione del regime da parte della diaspora.

 

Ma l’ambizione all’imparzialità e la tensione verso l’empatia non le risparmiano il fiato sul collo di un funzionario del ministero dell’Intelligence che ha il compito di tenerla d’occhio. Mr X la tormenta con telefonate esasperanti, diventa ostile e sospettoso se lei non gli risponde e pretende di sapere tutto delle sue fonti. Si incontrano in luoghi isolati, appartamenti o alberghi semivuoti in cui se gridasse nessuno la sentirebbe. Ogni tanto Mr X si offre di aiutarla a saltare farraginose procedure burocratiche poi, di punto in bianco, cambia argomento, la voce diventa tagliente e nomina gli amici di Moaveni come fossero capi d’accusa. “Non è forse Tizio che ti ha presentato Caio?”.

 

Quando il suo controllore esige un diritto di censura preventivo sui suoi articoli la pressione diventa insostenibile e Moaveni si trasferisce a Beirut, la perfetta distanza geografica ed esistenziale da Teheran. La pausa però non dura a lungo, nel 2005 si innamora, torna in Iran ed è un’altra estate elettorale, quella che tutti gli analisti preannunciano come l’estate della riscossa di Hashemi Rafsanjani. Per chi ha vissuto abbastanza a lungo da ricordarsi l’ex presidente come bestia nera dei dissidenti, c’è qualcosa di blasfemo nell’esaltazione che accompagna la descrizione della sua corsa apparentemente inarrestabile sulla stampa internazionale. Ma anche in Iran la musica è cambiata. Chi è nato dopo il 1979 guarda a quello che hanno ottenuto i suoi genitori e scuote la testa. Nessuno crede più al gradualismo riformista di Khatami e, invece di manifestare, tanti ragazzi se ne vanno e tanti altri tentando la fortuna tra schemi piramidali e dubbie transazioni immobiliari.

 

In quei giorni Moaveni parla con Kambiz Tavana, un giornalista un tempo in forza al quotidiano riformista Etemad che ha esorcizzato la disperazione per l’inutilità di Khatami andando a lavorare per Rasfanjani. “Bisogna essere realistici. E’ vero, la sua è una storia oscura, ma ha potere e il potere permette di fare delle cose. Dobbiamo adattare le nostre aspettative. Dieci anni fa non potevi presentarti a un esame in jeans e non c’erano centri commerciali a Qom. Adesso ci sono zone quasi apertamente gay a Mashad e tutti i ragazzini ascoltano musica indie-rock’’. Moaveni esce da quel colloquio a pezzi. Che ne sarà del futuro se chi sognava l’assoluto insieme a lei si contenta di libertà sociali pret à porter e fa spallucce davanti al male inevitabile della repressione? E’ a Beirut quando la chiama un’amica per dirle che invece di Rafsanjani ha vinto il pressoché sconosciuto Mahmoud Ahmadinejad. E’ l’inizio di un incubo che coglie tutti impreparati, ma sono giorni speciali per Moaveni, che si sposa dopo pochi mesi d’amore.

 

Quando suo padre lo viene a sapere, non ha il coraggio di dirle niente. “Si considerava un democratico, l’opposto degli ayatollah autoritari e non avrebbe mai osato criticare apertamente la mia decisione – scrive in un libro intitolato “Viaggio di nozze a Teheran” – ma il suo silenzio diceva molte cose. Perché abbracci una vita sotto il giogo odioso dei mullah quando io ti ho regalato una vita fortunata nella più gloriosa democrazia del mondo? Non riusciva a capire il mio bisogno di riconciliarmi con l’Iran nonostante i suoi governanti e i suoi difetti osceni e io non ce la facevo a comunicargli il mio desiderio di vivere in luogo più antico, un luogo che come nessun altro aveva una connessione profonda con il mio presente”.

 

Mentre è stata lontana è uscito un suo libro, “Lipstick Jihad”, in cui descrive la generazione dei figli della rivoluzione: dissipatori e idealisti, studenti, blogger, attivisti per i diritti umani, gente di campagna e del nord di Teheran che scopre il sesso e lo yoga, ingoia pastiglie di ecstasy e, in macchina, alza il volume della musica al massimo. E’ la traiettoria scomposta e vitale di chi “trasformerà l’Iran dal basso’’ anche se la speranza nel cambiamento smette a poco poco di essere incarnata da una persona (Khatami) e si trasforma in un sentimento astratto, una certezza senza volto che il futuro sarà comunque migliore. E’ un tipo di racconto che mette in luce un Iran che per il regime non esiste, il libro potrebbe pregiudicare il suo rapporto con le autorità, ma lei è giovane, felice e incosciente, vuole ballare nei roseti sotto le stelle e scherza con le amiche: “Se non riemergo dall’aeroporto, dividetevi le mie scarpe”.

 

Il ricevimento si svolge in un meraviglioso giardino nella casa di campagna della famiglia dello sposo. Il trucco è nelle mani di Jila, la make-up artist del momento. Moaveni spiega di detestare lo stile arayesh-e-khalijii, il makeover del Golfo che prende ispirazione dai video musicali del pop arabo. “Pensi davvero che io approvi il trucco volgare delle arabe?”, replica Jila stizzita. Ma dopo due ore nel salone di bellezza nel quartiere di Elahieh, Moaveni si ritrova sopracciglia imbrigliate dal filo e arcuate all’inverosimile, mentre le palpebre sono coperte da una decina di sfumature di ombretto perlato.

 

La sposa è incinta ma gli ospiti non lo sanno perché qualcuno potrebbe trovarlo di cattivo gusto anche se il loro è un ambiente che i conservatori bollerebbero come “occidentalizzato”. Il vestito è stato comprato in California e una sarta discreta lo ha riadattato. Sua madre disapprova quasi tutto: la data del suo matrimonio e in sequenza gran parte delle scelte relative al ricevimento, disapprova soprattutto il fatto che sua figlia abbia scelto di vivere in Iran, ma quando Moaveni intinge il dito nel miele insieme a suo marito pensa che l’unica cosa che conta è che quella è la vita che vuole, il mondo a cui vuole appartenere.

 

Lo sposo si chiama Arash, porta un nome antico anche lui, quello del mitico arciere che dal monte Damavand scoccò una freccia verso le steppe dell’Asia centrale e stabilì i confini orientali dell’Iran. Per sfuggire agli orrori della guerra con l’Iraq ha trascorso la sua adolescenza in Germania ed è come lei un giovane colto, benestante, un po’ orientale e un po’ occidentale, con gusti cosmopoliti e un’insopprimibile attrazione verso la musica e la poesia persiana. Poco dopo il matrimonio la luna di miele viene interrotta da uno squillo ed è un numero familiare. “Salam, bentornata”, dice Mr X. “Mio marito non approva che io incontri un altro uomo da sola, o ci vediamo nella lobby di un grande albergo o mi accompagnerà lui’’, risponde lei tentando di neutralizzarlo trincerandosi dietro il suo nuovo status. “Mi risulta che suo marito abbia vissuto all’estero, pensavo fosse di vedute più aperte’’, replica lui e tutto torna come prima, peggio di prima, con rimostranze di volta in volta più aggressive.

 

Nel frattempo i dissidenti sono diventati impossibili da contattare, i cellulari squillano a vuoto e molti attivisti hanno chinato la testa per evitare l’arresto ai genitori. Le sue cugine bevono latte di soia e comprano occhiali da sole “Jogio Armani’’, al centro commerciale Eskan, le ragazzine flirtano con i loro coetanei in fila per un cono e in certe zone Teheran è più luccicante di quanto non sia mai stata, la sensazione però è che siano tutti spenti, anestetizzati. Moaveni contatta Amir Balali, un ragazzo che faceva parte del movimento studentesco. Le dice “che è andato in pensione”, non tanto a causa della sua detenzione nel 2002 e per quelle terrificanti 72 ore in cui è stato picchiato e tenuto in piedi, sempre sveglio contro un muro. “Ma perché non ne vale più la pena. L’Iran è una catastrofe sociale, nessuno si toglie la maschera e tutti mentono. Non mi fanno bere, ma posso comprare droghe sintetiche dall’ambulante che vende succo di frutta all’incrocio”. E non ha senso pensare di “una ribellione come quella ucraina, ognuno, pensa per sé e l’idolo non è più Che Guevara ma Bill Gates”.

 

L’esaltazione del 2000 è evaporata e di quella sete di libertà sono rimasti solo gli eccessi. Moaveni seguita a cercare uno spiraglio, ripete agli amici come una litania che le cose cambieranno, discetta di sciismo quietista e invoca il magistero di teologi riformatori, ma sempre più spesso ha la sensazione di essere percepita “come un marxista americano che beve champagne nella New York del 1950 e spiega a un russo vittima di Stalin i nobili ideali del comunismo”. E quando scoppia una lite con Arash, anche lui l’accusa di essere troppo tenera con il regime. “Sei infatuata della cultura orientale, vai in estasi davanti a mullah che etichetti come liberal, ma appena ti chiedono di abbottonare meglio il tuo soprabito, crolli’’.

 

A poco a poco, nonostante la gioia della gravidanza, tutto attorno a lei è Weltschmerz, una parola tedesca densa come solo le parole tedesche sanno essere, che indica lo stato di perpetua tristezza che si prova per gli accadimenti del mondo: sei triste per lo stato dei rapporti con Washington, triste per i parenti che non tornano, triste per la povertà in Africa, triste perché non cresce il gelsomino sul terrazzo, sei talmente triste che alla fine ti abitui e non senti niente.

 

Moaveni è consapevole di non essere più la stessa quando, una sera, una festa nell’appartamento sopra il suo viene interrotta dalla polizia. Non sa se sono agenti in borghese o bassiji, sente solo grida e il rimbombo dei passi degli invitati che corrono giù per le scale. Si domanda se aprire la porta, ma poi viene sopraffatta dalla paura, cosa direbbe Mr X? Mancano poche settimane al parto, spegne la luce e si ripete che va bene così.

 

La prudenza non basta, Mr X chiama ancora e sentenzia che i suoi articoli sono stati esaminati e valutati propaganda anti regime, potrebbe esserci un processo, arriveranno in qualsiasi momento, deve stare zitta, ma forse non sarà sufficiente neanche quello. Un giorno suona il citofono, lei si affaccia e c’è un uomo che non ha mai visto, non riesce più a respirare, sente che le sta per scoppiare il cuore, corre in bagno e si chiude a chiave finché sopraggiunge il marito e le dice che era solo un postino. Ogni mese porta con sé la notizia di qualcuno che parte e la tentazione di seguirli diventa l’unica costante. Sette anni prima confidava alle amiche americane che non avrebbe più saputo fare a meno delle sue serate iraniane, le pareva che in occidente i ragazzi fossero addormentati e che in Iran, invece, tutto riconducesse ai grandi temi dell’esistenza la vita, la morte, gli ideali. Quando era stato che la sua vita si era trasformata in una soffocante catena di impossibilità?

 

Nel 2007 Moaveni, il marito e il piccolo Hourmazd si trasferiscono a Londra e intanto tutti quei ragazzi che ha intervistato nei caffè di Teheran non sono più ragazzi, ma quarantenni emotivamente alla deriva che “hanno smesso di credere di poter cambiare il mondo e sono diventati persone diverse”.

 

“Una volta in Iran vedevo la luce, ora solo le ombre”, ha scritto Moaveni qualche giorno fa in un editoriale sul New York Times, a pochi giorni dal trionfo di Hassan Rohani nelle recenti elezioni, in cui sono racchiusi tutto il suo amore e tutto il suo disincanto. L’Iran ha già avuto tutta la “moderazione” che il regime può concedere: “Le letture femministe del Corano e una società civile effervescente, l’engagement nei confronti della politica e un’infinita pazienza dinnanzi alla lentezza delle riforme”. La giovane reporter traboccante di speranza è cresciuta e dice che se fossero bastati questi ingredienti a trasformarlo, l’Iran sarebbe già un altro e, invece, l’amara verità è che tutte queste cose non bastano. “Una nazione è entrambe le cose, la sua gente e i suoi leader” e mentre i telegiornali internazionali celebrano i moderati, Moaveni non può fare a meno di ricordare che l’Iran ha già sperimentato un Parlamento e un presidente riformista, ma questa sinergia non è comunque riuscita a erodere il potere degli oltranzisti né il loro controllo sulle istituzioni. “L’idea stessa di riformismo come categoria è stata diluita e i riformisti che un tempo si appellavano all’islam per parlare di libertà ora sono semplicemente grati di non essere chiusi in una prigione. Il riformismo come categoria intellettuale e strategia politica è in stallo”. Lo stesso stallo di un’intera generazione che nel 2009 si è riaffacciata al mondo, ma quando sono arrivati i bassiji, il mondo non aveva tempo.

 

“Volevo così tanto scrivere un libro sull’Iran che non fosse deprimente e invece il finale è triste”, si rammarica Moaveni prima della pubblicazione del suo “Lipstick Jihad”.“Non è colpa tua – le risponde un’amica – non puoi tirar via la tristezza da una storia sull’Iran’’.

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