Un poster di Obama nella Cuba normalizzata per parlare ai posteri

E’ una prima assoluta nella Cuba castrista e forse pure nell’isola più in generale, l’immagine dell’odiato leader straniero che si sovrappone alle icone di Castro, Che Guevara, José Marti e agli altri eroi della rivoluzione. Da domenica la visita del presidente americano

New York. Lungo le strade dell’Avana ci sono centinaia di manifesti di benvenuto con il volto di Barack Obama e Raúl Castro, esibizione di simboli inevitabilmente storica – come tutto della visita che inizia domenica – in un regime che ha fatto dell’iconografia del leader un marchio globale, e ora si ritrova sui muri il capo dell’impero americano. Un altro che di poster se ne intende. E’ una prima assoluta nella Cuba castrista e forse pure nell’isola più in generale, l’immagine dell’odiato leader straniero che si sovrappone, per il tempo di una photo opportunity da condividere sui social, alle icone di Castro, Che Guevara, José Marti e agli altri eroi della rivoluzione.

 

La Casa Bianca ha organizzato la visita con un cerimoniale a metà fra la missione diplomatica e la visita di piacere, con la famiglia Obama per intero, gli incontri bilaterali, le visita ai dissidenti, l’intervista alla televisione locale, i concerti e la partita dei Tampa Bay Rays contro la Nazionale cubana, ché il baseball è il terreno su cui la cultura yankee e quella caraibica s’incontrano. La delegazione americana che occuperà 1.200 stanze d’albergo include una quarantina di membri del Congresso, imprenditori che immaginano resort all inclusive e cubani-americani di spicco scelti fra quelli che considerano il disgelo con Castro la risoluzione naturale di un anacronismo, non una concessione gratuita a un regime socialista brutale.

 

Ted Cruz, Marco Rubio e altri politici di origine cubana hanno liquidato con disprezzo un viaggio scenografico e politicamente monco, almeno fino a che il Congresso non avrà votato per la riforma di sostanza, la fine dell’embargo. La basa americana di Guantanamo è, invece, il trofeo che compare ciclicamente nei sogni del regime; la leggenda vuole che per l’uso di quel pezzo di terra concesso dopo la guerra con gli spagnoli, Washington paghi un affitto simbolico mensile con assegni che il regime piazza regolarmente in un cassetto. Incassarli significherebbe riconoscere la legittimità della base militare.

 

Di riconoscimenti politici si parla poco. Granma, l’organo ufficiale del Partito comunista cubano, ha scritto – tanto per chiarire – di non aspettarsi che Cuba “abbandoni i suoi ideali rivoluzionari” nel giro di un tour diplomatico-commerciale, ci vuole più di un’apertura turistica per armonizzare visioni del mondo irriconciliabili, anche a Guerra fredda sepolta.

 

Il trattamento della questione dei dissidenti e le parole che Obama dirà – e non dirà – sui diritti umani sono criteri importanti per capire il grado di purezza della lega fra Washington e Cuba, ma da un altro punto di vista lo scopo di Obama è semplicemente normalizzare. La bandiera a stelle e strisce è stata già solennemente alzata da John Kerry in un cerimoniale che, a ben vedere, si muoveva ancora nel canone iconografico della Guerra fredda, essendo uno dei suoi ultimi atti formali. Ora si tratta di trasmettere il senso della normalizzazione, il tour sotto il sole dell’Avana, Sasha e Malia arruolate per dare un tocco informale alla spedizione, la comunità di business che dischiude nuove opportunità per il popolo cubano, una partita di baseball per competere e allo stesso tempo abbracciarsi. Le tensioni politiche, ancora enormi, ridotte a rumori di fondo. Obama non incontrerà il vecchio Fidel, che affiora sulla scena pubblica ormai di rado, e forse la visione non avrebbe giovato al messaggio che la Casa Bianca vuole sottolineare: il disgelo si sta negoziando con il presente e il futuro di Cuba, non con il passato.

 

Tutto questo però è in qualche modo superato, almeno nella lingua non secondaria dei simboli, dal poster. Il volto di Obama ripreso quasi frontalmente, con inquadratura cheguevaresca e non di profilo, rivolto verso il sol dell’avvenire come da protocollo sovietico, passa dai muri dell’Avana ai libri di storia in un battito di ciglia. Anche grazie a un’immagine simile, sebbene non identica, aveva conquistato la presidenza otto anni fa, ma alla fine del secondo mandato si cerca un trofeo per eternarsi, la missione più difficile è rimanere, non arrivare. Ed è meglio se il trofeo in questione è visibile, riducibile a icona. L’Obamacare fai fatica a raccontarla per immagini, mentre all’Avana un poster può parlare ai posteri.

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