Un partecipante alla grande manifestazione di domenica in Brasile per chiedere le dimissioni della presidente Dilma Rousseff (foto LaPresse)

AAA liberali latinoamericani cercansi

Eugenio Cau
Dal Brasile sconquassato dalle inchieste e dalle proteste al Venezuela, i governi populisti sono in crisi. Ma cosa viene dopo di loro?

In Brasile, dopo le manifestazioni oceaniche di domenica, la corruzione, il crollo economico, il malcontento della popolazione, gli arresti fatti e quelli minacciati, si può dire con una certa sicurezza che comunque vada lo status quo sta per finire. Il dominio sul paese del Pt, Partito dei lavoratori, ormai ha una data di scadenza, che potrebbe essere la fine del mandato da presidente di Dilma Rousseff (2018) o anche molto prima, visto il processo di impeachment in corso e i molti altri minacciati. L’operazione Lava Jato, la Tangentopoli brasiliana che parte da un miliardario giro di mazzette intorno alla compagnia statale del petrolio, Petrobras, sta sconquassando i ranghi del partito fino a toccare, questo mese, il suo vertice, l’ex presidente e padrino politico di Dilma, Ignacio Lula da Silva. Gli inquirenti hanno chiesto il suo arresto formale per corruzione e riciclaggio di denaro, e si vocifera che Dilma, per salvarlo, gli abbia offerto un ministero del governo per dargli la parziale immunità giudiziaria di cui godono le alte cariche. Lula ha già accettato, dicono i giornali brasiliani, è solo una questione di formalità. Dopo che milioni di persone sono scese in piazza mostrando immagini di Lula e Dilma dietro alle sbarre e chiedendo la loro rimozione, perfino, in alcuni casi, invocando il regime militare, la mossa aggraverà la crisi di popolarità del governo, ma appunto, ormai Dilma ragiona in termini di sopravvivenza, non di tattica politica. Le centinaia di migliaia di persone in piazza domenica, gli elettori arrabbiati che sono rimasti a casa, i tantissimi che inneggiano al magistrato manettaro Sérgio Moro (uno che prende ispirazione da Antonio Di Pietro) chiedono tutti la fine del governo di Dilma. In Brasile è il momento della rabbia difficile da controllare, ed è comprensibile. Ma nessuno si è ancora fatto la domanda più importante: dopo Dilma cosa c’è?

 

Il fatto è che in Brasile la fine del governo del Pt, che ha dominato la scena per vent’anni, significherebbe quasi un vuoto di potere. O meglio, un’alternativa si troverebbe, ma sarebbe pescata sempre dallo stesso stagno di coalizioni variabili (con personaggi a volte imbarazzanti) in cui Lula e Dilma hanno nuotato negli ultimi decenni per governale. Alcuni dei manifestanti proponevano di affidarsi a Tiririca, il clown grillesco (ma con trucco e costume, a differenza del leader morale del Movimento cinque stelle) che ha ottenuto un seggio al Parlamento dopo una eclettica campagna elettorale nel 2014. Altri dicono che, visti i risultati, perfino un ritorno alla dittatura militare sarebbe meglio. I più accorti dicono che dopo vent’anni di dominio del populismo di sinistra sarebbe ora che la settima economia del mondo fosse governata da un autentico liberale. Peccato che in Brasile di autentici liberali ce ne siano pochi, e nessuno di essi è davvero presidenziabile. I partiti che si definiscono liberali sono una forza trascurabile in Parlamento (quando non extraparlamentari) e anche politici come Aecio Neves, il candidato battuto per un soffio da Dilma alle elezioni del 2014 (il suo partito, seppure centrista, si definisce comunque socialdemocratico), sono spesso stati una meteora, e Neves alla manifestazione di domenica Neves è stato fischiato duramente.

 

La situazione del Brasile si ripete in tutto il continente. Dal Venezuela alla Bolivia all’Ecuador l’asse populista latinoamericano sta crollando, sotto il peso dell’economia malandata o del malcontento popolare. E’ un movimento ampio e dalla portata storica: l’ondata di sinistra si sgonfia, e quell’infornata di governanti che negli ultimi quindici anni ha portato molta retorica, poca crescita economica e pochissima democrazia in mezza America Latina sta per esaurirsi. Ha dato l’esempio l’Argentina, dove il liberale Mauricio Macri ha sconfitto i peronisti della dinastia Kirchner l’anno scorso. Ma questo esempio è difficile, se non impossibile da seguire altrove per assenza di materia prima. I chavisti hanno perso le elezioni per il Parlamento venezuelano grazie a un’ammucchiata di forze di opposizione, che hanno raggiunto un risultato certamente storico ma non sono in grado di esprimere un leader. In Bolivia Evo Morales ha perso il referendum per modificare la Costituzione e tornare a candidarsi per la quarta volta, ma ancora non sono apparsi candidati liberali in lizza per sostituirlo. I populisti gridano allo spauracchio dei neoliberisti nel tentativo di puntellarsi al potere, se me ne vado io arrivano i neoliberisti, dicono. Bene, ma questi neoliberisti dove sono? Per ora nessuno li ha visti.

 

La situazione non è così in tutta l’America latina. Il Perù, la Colombia, in parte il Messico hanno governi liberali. Ma in gran parte del continente sono in corso processi di grande portata, e si stanno generando occasioni che rischiano di andare sprecate. Servirebbero un Macri per ciascuno di questi paesi, o forse di meglio. Per ora mancano perfino le imitazioni.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.