Ted Cruz (foto LaPresse)

Le elezioni americane spiegate a chi ha in casa mezzo catalogo Feltrinelli

Alberto Mingardi
Ted Cruz non sarà perfetto – vedi politica estera e privacy – eppure ha studiato a Princeton e Harvard, è affezionato al mercato, alla Costituzione e al Bill of Rights. Se superassimo certi tic molto europei, vedremmo in lui la carta per battere (bene) il capitalismo di relazione degli altri candidati.

La ragione per cui l’opinione pubblica europea, e anche quel pezzo d’opinione pubblica americana che le somiglia, non può digerire Ted Cruz è molto semplice. Cruz crede che Dio esista, e che ci sia l’inferno, e tutte quelle altre cose che consideriamo l’equivalente un po’ appannato delle storie di Babar: materia per l’infanzia, di ciascuno di noi e del mondo.

 

Per colpa del Padreterno, dunque, Ted Cruz è regolarmente considerato un povero fesso. Eppure ha studiato a Princeton e alla Harvard Law School, da studente è stato un campione di dibattiti, ha fatto il law clerk per il giudice Rehnquist, da avvocato è riuscito a portare nove casi davanti alla Corte suprema. Per rivendicare la coerenza delle sue posizioni, sul suo sito non soltanto riporta il suo “record” in Senato: ma i suoi op-ed, articoli di commento, nostalgica testimonianza di fede nella parola scritta.

 

Fosse un uomo di sinistra, Cruz sarebbe il candidato ideale degli intellettuali di mezzo mondo: egli è innegabilmente il prodotto di un movimento di idee. Ma visto che quel movimento di idee è il movimento conservatore americano, per chi ha in casa mezzo catalogo delle edizioni Feltrinelli Ted Cruz è un oggetto misterioso. Del resto, fosse per loro, gli Stati Uniti non avrebbero avuto un presidente repubblicano dai tempi di Eisenhower.

 

Cruz è per una netta semplificazione del sistema fiscale (attraverso una flat tax, compensata da una revisione del sistema delle imposte indirette), è avverso al Quantitative easing e alla moda di affidare le sorti del mondo ai banchieri centrali, vuole condurre una vasta operazione di deregulation, cominciando con l’abolizione di quella “Obamacare” che è un monumento di complicazione normativa. L’oggetto misterioso, come la più parte degli americani, è affezionato al diritto di portare armi e, in generale, all’idea che se la Costituzione o il Bill of Rights dicono una certa cosa, tipo “the right of the people to bear and keep guns”, vogliono dire quella roba lì, e non un’altra. In un commento sul Wall Street Journal, l’altro giorno, Cruz ha espresso con intelligenza politica e sapienza giuridica l’idea che il Presidente uscente, a pochi mesi dalla scadenza del mandato, non debba procedere a nominare il successore del giudice Scalia. Anche per questo, uno dei più brillanti senatori repubblicani, Mike Lee, ha fatto il suo endorsement per Cruz: ed è questione tutt’altro che periferica, perché di quel pezzo del mondo conservatore che vota sulla base di convincimenti lungamente meditati Lee è genuino portavoce.

 

Nessuno è perfetto, figurarsi un uomo politico. Cruz propone una politica estera dai toni preoccupantemente bellicisti e ha preso una posizione frettolosa sul caso Fbi/Apple. Come quasi tutti i repubblicani, tende a spegnere le sinapsi al suono delle parole “guerra al terrorismo”. Ma, a differenza di quasi tutti i repubblicani, pare aver compreso, non senza un certo travaglio, che la “guerra alla droga” è una tragedia autoinflitta e ritiene che i singoli stati abbiano il diritto di legalizzare il commercio di marijuana.

 

Dei candidati rimasti in partita, è l’unico che esibisca affetto per la Dichiarazione d’Indipendenza, per la Costituzione, per il Bill of Rights. Insomma l’unico che s’inserisca apertamente in quella tradizione retorica per cui l’America è un’altra cosa, ed è un’altra cosa per il modo in cui è nata.

 

Non è detto che Cruz abbia in mano carte buone abbastanza per vincere. Eppure la sua affannosa rincorsa è l’unica speranza che possiamo riporre in una contesa elettorale che non assomigli a quella, con rispetto parlando, di un paese sudamericano.

 

 

Il trait d’union fra Trump e Hillary

 

Il cosiddetto “establishment” repubblicano vorrebbe estrarre un candidato ben pettinato, diverso da quelli in gara, da una convention senza una maggioranza netta ma con un vincitore morale: Donald Trump. A esser generosi, è un progetto suicida. Se Ted Cruz non riduce le distanze, ovvero se gli altri non-trumpisti non convergono su di lui, è probabile che a novembre sarà una sfida Trump-Hillary. Un miliardario che è tale solo perché ha sempre evitato accuratamente di pagare i suoi debiti, un’ineffabile avversaria del “top one percent” che nel 2014 ha avuto un reddito di circa 15 milioni di dollari: entrate in larga misura riconducibili alla sua attività più significativa, che è quella di broker di influenza politica. Non saranno due “corrotti” in senso tecnico, ma sono l’uno e l’altro la plastica incarnazione di un capitalismo in cui le relazioni contano più dei profitti, e comprensibilmente un ex presidente e sua moglie possono farne un business di successo.

 

E’ un sistema di cui noi italiani abbiamo imparato a vergognarci, guardando al contrario con ammirazione e speranza al mondo anglosassone, alla sua serietà, al rigore della separazione fra economia e politica. Quanto siamo stati contenti, di ripetere che era inimmaginabile un Berlusconi americano.

 

Cruz non desidera proibire l’aborto: ma siccome lo ritiene una pratica eticamente controversa, non vuole che Planned Parenthood sia finanziata dalla totalità dei contribuenti, alcuni dei quali considerano quelle pratiche abiette. Tanto basta a farci temere che voglia instaurare un impero teocratico. In compenso, su Madame conflitto d’interessi non c’è benpensante europeo che avanzi un mezzo dubbio. Eticamente inaccettabile è solo ciò che è politicamente sgradito.

 

 

 

Alberto Mingardi è il direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni