Perché nel Giappone tanto simile all'Italia il populismo non attecchisce

Giulia Pompili
Le annunciate grandi riforme strutturali non arrivano. L’economia non decolla. La popolazione è in declino, e il numero di nuovi nati ogni anno scende pericolosamente. Italia e Giappone hanno molti problemi in comune.

Roma. Le annunciate grandi riforme strutturali non arrivano. L’economia non decolla. La popolazione è in declino, e il numero di nuovi nati ogni anno scende pericolosamente. Italia e Giappone hanno molti problemi in comune. Anche se i leader al comando nei rispettivi paesi vengono da schieramenti opposti, il capo del governo italiano Matteo Renzi e il primo ministro giapponese Shinzo Abe sono politici piuttosto simili: entrambi carismatici, decisionisti, positivi, attenti alla comunicazione, riformatori.
La prima grande differenza tra i due, semmai, riguarda i sondaggi. Secondo l’ultima rilevazione di Kyodo news, la fiducia dei giapponesi nell’Amministrazione Abe è scesa sotto il 50 per cento nel mese di febbraio – un problema per il premier nipponico, che presta molta attenzione all’approvazione pubblica sin dalla sua prima prova al governo, nel 2006, quando la fiducia nei suoi confronti sfiorava il 70 per cento. Ma se la metà dei giapponesi si fida del governo nonostante gli scandali, le dimissioni eccellenti, le tasse che aumentano, la riforma elettorale, la modifica della Costituzione pacifista, un motivo deve esserci.

 

In Italia i sondaggi seguono il flusso delle vicende politiche, salgono e scendono a ogni titolo di prima pagina. Sono dunque numeri imparagonabili: secondo l’ultima rilevazione dell’Istituto Ixè per Agorà, la fiducia nel governo di Matteo Renzi si attesta al 29 per cento. Uno dei fattori che influenza di più i numeri della politica nipponica, e la discreta stabilità dell’opinione pubblica, è che in Giappone, a differenza dell’Italia, il populismo non esiste. A Tokyo il Parlamento somiglia a quello americano, con due grandi coalizioni che si contendono il potere, e molte correnti interne. Ma il populismo tipico dell’occidente non vi è ancora mai sbarcato. In un articolo pubblicato martedì scorso sul Nikkei Asian Review, Peter Tasker, scrittore, giornalista e uno dei guru dell’economia giapponese, spiegava perché non sia mai esistito a Tokyo un equivalente di Donald Trump (o di Beppe Grillo). Il Giappone ha attraversato periodi di crisi profonda, un ventennio di stagnazione, scrive Tasker, ma l’uomo al comando adesso, che gode di una così ampia fiducia dei cittadini, è un uomo di establishment con una tradizione politica che si tramanda da generazioni.

 

Dice Tasker al Foglio: “La condizione del populismo è il gap, materiale e ideologico, tra le élite e il resto della società. Questo gap non è così accentuato in Giappone. In Europa, per esempio, l’euro o Schengen sono progetti delle élite che in Giappone non sarebbero mai stati contemplati. Le élite sanno quali sono i loro limiti. Se Abe annunciasse che vuole accogliere un milione di rifugiati dal medio oriente, lo farebbero fuori in pochi giorni”. Secondo Tasker, le élite giapponesi sono state furbe e capaci di rispondere alla “pancia” dei cittadini senza allontanarsene troppo. La cultura giapponese, poi, vuole l’uomo di establishment dimesso e umile. E cita l’esempio di quando si voleva esportare nel Sol Levante il reality show “The Apprentice”, in Italia condotto da Flavio Briatore, ma nessuno dei ricchi giapponesi era stato disposto a farlo: “Sono pochi gli uomini del business, i ricchi giapponesi, ad avere stili di vita stravaganti e glamour. La maggior parte è come tutti gli altri”, dice Tasker. E un differente approccio culturale alle avversità: “L’economia nipponica è ancora in riabilitazione, e la gente non è ottimista oggi, anzi. Ma anche in queste circostanze c’è un senso di condivisione, come a dire ‘siamo tutti sulla stessa barca’. Le condizioni economiche avverse vengono vissute come un disastro naturale, e difficilmente qualcuno se la prende con le banche, o i dirigenti d’azienda”, spiega Tasker.

 

[**Video_box_2**]Ma allora non esiste una società civile, in Giappone? “Sì, ci sono scrittori, artisti, giuristi. Ma sono meno influenti che in Europa, dove la società civile ha preso il posto dei preti ed è diventata arbitro morale e interprete del pubblico pensiero. In molti paesi europei c’è un divario incredibile tra ciò che l’élite intellettuale pensa e il pubblico – e gli intellettuali sono bravi a portare le leggi nella direzione che pare a loro”, dice Tasker. E fa l’esempio della Costituzione, unico esempio in cui la società civile giapponese ha fatto sentire la propria voce pur essendo stata importata da un progetto di élite, e dell’accordo Trans Pacifico con gli Stati Uniti: “I produttori agricoli giapponesi sanno che è un accordo che li penalizzerà, ma Abe resta popolare nonostante questo. E’ perché la gente apprezza che l’accordo sia stato fatto per tenere fuori la Cina. E’ un progetto contro l’egemonia cinese”. Non c’è spazio per il populismo, quando si pensa in grande.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.