Donald Trump (foto LaPresse)

Primarie Usa, Trump vince ancora, Bush si ritira. In Nevada vince Clinton, ma che fatica

Donald Trump vince anche in South Carolina e mette un sigillo sul suo status di frontrunner. Jeb Bush mette fine a una campagna disastrosa, mentre Rubio celebra il solito terzo posto in rimonta con un altro discorso della vittoria, nella speranza di poter cucire attorno a sé una coalizione anti Trump.

Donald Trump ha vinto ancora. In South Carolina è stata vittoria secca (32,5 per cento), sebbene assai meno schiacciante di quella in New Hampshire e in flessione rispetto ai sondaggi. Dieci punti sul secondo classificato bastano (e avanzano) per raggiungere lo scopo che si era prefissato per questo esordio elettorale nel sud: mettere un sigillo sul suo status di frontrunner. Trump è andato bene fra gli elettori laici ma ha tenuto anche fra gli evangelici, mentre ha perso terreno fra le donne e i giovani. Il dato più significativo è che più della metà degli elettori che un mese fa aveva dichiarato l’intenzione di votarlo, lo ha effettivamente fatto. Significa che il suo popolo per il momento è fedele, non si butta sulle sue ribalderie per un raptus antipolitico e poi rinsavisce con l’approssimarsi delle urne. Ora the Donald sostiene di avere due match point facili facili per mettere in saccoccia la nomination ben prima dell’estate: il primo è fra poco più di una settimana, nel Texas di Ted Cruz (è uno degli stati che vota al Super Tuesday), l’altro è nella Florida di Rubio, dove si vota il 15 marzo. 

 

Come però ha scritto ieri a caldo Alex Burns, uno dei cronisti della pattuglia del New York Times sulle strade della campagna, “se qualunque altro candidato fosse arrivato secondo di poco in Iowa e avesse vinto New Hampshire e South Carolina sarebbe uno schiacciante frontrunner. Ma Trump non è qualunque altro candidato”. E qui s’aggancia la seconda notizia che arriva dal campo repubblicano, cioè il ritiro di Jeb Bush. Il 7,8 per cento rimediato in South Carolina è magrissimo, ma a ben vedere non è che l’amaro raccolto di una semina fatta molti mesi fa. Nemmeno l’intervento di un George W. in grande spolvero è riuscito a raddrizzare una campagna nata storta. Si tratta ora di vedere la sua piccola fetta di elettorato e la sua più consistente fetta di establishment in che direzione si muoverà ora (stesso discorso per John Kasich, anche lui punito in Carolina dopo la bella prova in New Hampshire). 

 

[**Video_box_2**]Terzo dato di giornata: il secondo posto "virtuale" in netta rimonta di Marco Rubio. Rubio e Ted Cruz sono al 22 per cento, separati da uno zero virgola, e Cruz e tecnicamente davanti. Ma in questa situazione di equilibrio i numeri sono più importanti dell’ordine di arrivo, perché significa che il senatore della Florida è andato decisamente meglio del previsto, e il collega del Texas non ha fatto il salto in avanti che sperava, soprattutto alla luce del lavoro maniacale su un territorio del sud in cui lui dovrebbe fare la parte del maschio alfa. Rubio ha finito così per pronunciare il secondo discorso della vittoria senza avere vinto nemmeno uno stato (anzi: senza nemmeno essere arrivato secondo) e in un momento quasi etilico ha annunciato che “i figli della rivoluzione di Reagan sono pronti per prendere il mantello della leadership”. Il ragionamento dietro a tanta enfasi è che Trump non è un qualunque altro candidato, e forse c’è ancora la possibilità di cucire una coalizione “moderata” in funzione antitrump, magari con l’aiuto della macchina di Jeb. Ieri, in un’altra iperbole, lo ha chiamato “il più grande governatore della storia della Florida”, dopo che i due se le sono date sotto la cintura senza pietà per settimane.

 

Nel caucus democratico del Nevada, invece, ha vinto Hillary Clinton, con cinque punti buoni su Bernie Sanders. E’ un’incoraggiante conferma per lei, se si considera come si erano messe le cose. Se si considera invece che un mese fa i sondaggi la davano avanti di venti punti, che il suo team ha messo piede in Nevada sei mesi prima di quello dell’avversario, che è lo stato del power broker democratico Harry Reid, che non ha dato endorsement ma è l’incarnazione dell’establishment, che dopo essersi persa le donne e i giovani ieri ha perso anche fra gli ispanici, mentre ha vinto il voto degli afroamericani, ecco, se si considera tutto questo è stata una vittoria stentata, ad essere clementi. Il Super Tuesday del 1° marzo assume una rilevanza enorme.