William McGurn

Cos'è la grande fuga

Giulio Meotti
“La guerra in Iraq ha definito il periodo che ho trascorso alla Casa Bianca e fu terribile: arrivi ogni giorno al lavoro e leggi di uccisioni”. William McGurn è stato speechwriter del presidente americano George W. Bush nel periodo più difficile, gli anni dal 2005 alla fine del secondo mandato nel 2008.

Roma. “La guerra in Iraq ha definito il periodo che ho trascorso alla Casa Bianca e fu terribile: arrivi ogni giorno al lavoro e leggi di uccisioni”. William McGurn è stato speechwriter del presidente americano George W. Bush nel periodo più difficile, gli anni dal 2005 alla fine del secondo mandato nel 2008. Il suo predecessore, Michael Gerson, almeno poteva vantare il merito di aver scritto il discorso dell’11 settembre, considerato il migliore di Bush. A McGurn, invece, l’ingrato compito quotidiano di giustificare una guerra orfana. Per questo McGurn non sopporta oggi sentir ripetere che lo Stato islamico sia figlio di quella guerra. “E’ anche il tema dominante della campagna elettorale dei democratici”, dice al Foglio McGurn. “Bush approvò il surge in Iraq nel 2007 ed è stato un successo. Ma purtroppo è arrivato tardi e Obama lo ha subito disperso. Il più grande peccato di Bush è stato vincere la guerra. C’è gente che non potrà mai perdonare Bush per non aver perso una guerra che tutti avevano dichiarato impossibile da vincere. Tutto ciò che dopo dovevamo fare era lasciare un numero di truppe sufficienti per consentire al governo iracheno di crescere e respirare. Ma non lo abbiamo fatto e oggi ne vediamo i risultati. Per i critici di Bush sarebbe stato molto più facile se il surge non avesse funzionato, perché avrebbero potuto attribuire il fallimento a lui e non alla loro mancanza di volontà. Io sono stato uno speechwriter, non decidevo la politica. E’ stato terribile e conosco famiglie che hanno perso i figli in Iraq e Afghanistan. Quando ero giovane e lavoravo come giornalista inviato con base a Hong Kong, feci molti viaggi in Vietnam, andai a visitare i boat people che scapparono negli anni Settanta e Ottanta. Una volta il presidente Bush mi disse: ‘Billy, non abbandoneremo il popolo iracheno come facemmo con quello del Vietnam dal tetto di una ambasciata’. Lo ammiravo per questo. La gente ignora cosa significhi cambiare strategia militare nel bel mezzo di una guerra che non stai vincendo. Ma lui lo ha fatto e sono fiero di essere stato al suo fianco quando tutto andava male e molti se la davano a gambe”.

 

Quel disimpegno, ci dice ancora William McGurn, speechwriter di George W. Bush dal 2005 al 2008, ha contaminato la Siria, causandone il disastro cui assistiamo: “Quello è lo specchio di ciò che accade quando l’America declina e si ritira. Quando il presidente Obama ha rilasciato alcune dichiarazioni sulla linea dura (la linea rossa in Siria, la promessa di sconfiggere lo Stato islamico), sono consistite in una promessa d’azione decisiva domani per non fare niente oggi. In assenza di un sostegno americano alle forze moderate, il vuoto dell’America è stato riempito dalle forze del male. Non aver lasciato una presenza militare in Iraq ha consentito all’Isis di crescere e di colmare, assieme ad al Qaida, i ranghi contro Assad. E ora la Russia ha preso il posto dell’America come maggiore protagonista nella regione. Intanto, persone innocenti muoiono in Siria e l’Europa deve far fronte alla crisi dei migranti”. Già, l’Europa. “Quando cadde il Muro di Berlino ricordo che mi domandai: l’Europa dell’est solleverà quella dell’ovest o diventerà come tutto il resto? Il problema dell’Unione europea è che la sua concezione dei diritti e della libertà è come in John Rawls, tutti aderiamo a certi princìpi fino a che qualcuno dissente”. La primavera araba si è trasformata in un lungo inverno islamista: “Già Tommaso d’Aquino riconobbe che prima della virtù serve un comportamento virtuoso. La libertà si basa su istituzioni libere che il mondo islamico non conosce”. E la Francia, pensa faccia sul serio nella sua “war on terror” contro l’Isis? “Penso che i francesi siano seri, ma hanno un problema con la laicità, problema illuminato dagli islamisti. La Francia ha una visione davvero cupa del secolarismo. L’America anche è laica ma, come ha notato Tocqueville, non è ostile alla religione. La domanda non è se gli individui credano oppure no, ma se una società libera possa costruirsi su un agnosticismo ufficiale. Non ne sono sicuro. La discesa europea verso il relativismo è iniziata ben prima della minaccia islamista. Ha a che fare con il rifiuto delle verità metafisiche, le verità autoevidenti che definiscono il concetto americano di diritti inalienabili, a favore delle verità scientifiche. La dignità umana  e i diritti umani non sono mere artificialità piacevoli. Senza verità metafisica, una società non riuscirà a sostenere le idee di libertà e dignità. In alcune parti d’Europa si ha l’impressione che l’unico orgoglio sia nel definirsi moderni. Anche gli Stati Uniti sono la nazione più moderna al mondo, ma anche una delle più religiose”.

 

“Obama pretenzioso e indifferente”

 

[**Video_box_2**]Torniamo a Obama: “Non è mai stato difficile indovinare la priorità della politica estera di Obama. Nel corso di una cena a New York l’ha messa in questo modo a un gruppo di donatori: ‘Abbiamo chiuso due guerre’. E’ stato più che un presidente isolazionista, direi pretenzioso e indifferente. Si annoia quando il mondo non funziona come vuole lui”. E il deal iraniano? “E’ sempre stato parte della visione del mondo di Obama fin dall’inizio. E’ il trionfo del pensiero come in una stanza dei professori: sembra sofisticato ma manca di ogni senso comune. E’ come il deal che è diventato importante non per quello che ha raggiunto, ma in quanto tale. Il prezzo è alto, non soltanto per quello che è stato fatto a Israele, ma anche per il ruolo dell’America nel mondo arabo. Nelle sue memorie, il segretario alla Difesa, Bob Gates, conclude che il presidente non credeva alla sua stessa ricetta per l’Afghanistan. E’ una cosa terribile da dire mentre gli americani stavano ancora morendo”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.