Hossein Amanat e, sullo sfondo, una foto della Torre della Libertà da lui progettata

Dallo Scià a Rohani, vi racconto il mio Iran sommerso

Gabriele Carrer
Intervista all’architetto Hossein Amanat, l’ideatore della Torre della Libertà, simbolo dell’unità nazionale. L’arte nascosta al proprio popolo dal regime, le statue coperte a Roma e la persecuzione delle minoranze religiose.
La mente dell'architetto Hossein Amanat vola a cinquant'anni fa, quando sui banchi dell'Università di Teheran studiava l'arte classica. Erano gli anni dell'industrializzazione e della modernizzazione promosse dallo Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi. Durante il primo anno, ad Hossein e ai suoi compagni di corso fu chiesto di riprodurre sulla tela la Venere di Milo, una delle più celebri statue greche. “Davanti a noi c'era una riproduzione in tutta la sua bellezza e la sua nudità”, racconta l'architetto Amanat. “Ma era cinquant'anni fa. Oggi certe bellezze gli iraniani le vogliono coperte. Non capisco come si sia potuto coprire quelle statue, come si possa nascondere l'arte. Sono bellezze e capolavori da esporre, da mostrare con orgoglio. Non credo che chi guarda queste statue possa avere pensieri peccaminosi: è semplice e pura arte, in tutta la sua magnificienza”.

 

Hossein Amanat vive oggi a Vancouver, in Canada, dove da oltre trent'anni ha trovato rifugiato dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Nato nel 1942 in Iran, era considerato a cavallo degli anni Sessanta e Settanta uno dei più promettenti architetti iraniani. Oggi i suoi progetti sono visibili in Canada, in Cina, negli Stati Uniti, in Israele (dove ha progettato anche il Centro per lo studio dei testi sacri bahai) e in altri paesi. A 24 anni vinse il bando per disegnare la porta d'ingresso nella capitale voluta dalla Scià per celebrare i due millenni e mezzo dell'Impero persiano. Erano gli anni di un “piccolo rinascimento”, come l'ha chiamato Amanat, in cui cultura iraniana e occidentale si mescolavano. In occasione dei festeggiamenti del 1971, indetti per celebrare i 2.500 anni dalla fondazione della Persia, Teheran divenne un set su cui mettere in scena tutta la potenza della dinastia Pahlavi. Il famoso Cilindro di Ciro il Grande, definito dallo Scià “la prima carta dei diritti umani”, fu il simbolo delle celebrazioni. L'imperatore e l'imperatrice accolsero nel lusso i rappresentanti dei paesi del mondo; per l'Italia era presente Emilio Colombo, allora presidente del Consiglio, oltre ai Savoia Vittorio Emanuele e Marina Doria. La Shahyad Tower di Amanat, dall'alto dei suoi 148 piedi, era una delle principali attrazioni dell'evento. Meno di otto anni dopo, con la rivoluzione islamica, divenne la Azadi Tower, la Torre della Libertà.

 

Un nome che è una beffa per l'architetto Amanat, che dopo il 1979 non poté più varcare quella porta persiana. “L'ultima mia volta a Teheran fu nel 1977”, ricorda. Sui fedeli bahai come lui grava  una fatwa del regime degli ayatollah: sono oltre 70 i credenti tutt'oggi rinchiusi nelle carceri iraniane. E ai bahai è negato l'accesso all'istruzione e alla cultura. “Se avessi negato la mia fede probabilmente avrei avuto molte commissioni in Iran. Ma così non è stato. I bahai sono anche stati accusati di collaborazionismo con il nemico di turno del regime: prima con la Russia, poi con il Regno Unito, con il sionismo, con l'America. L'importante era gettar fango su una fede sgradita e scomoda, lontana dalla politica e convinta dell'uguaglianza dei diritti tra uomini e donne”. Amanat non è mai stato disposto a rinnegare la sua religione. Sono passati 37 anni da quando un volo Air France riportò Khomeini in Iran dopo gli anni dell'esilio. E dopo quella rivoluzione fu Amanat a non fare più ritorno nella sua terra natìa. Non è mai stato chiamato, nemmeno come consulente, per la restaurazione di alcune sue opere, a partire proprio da quella Torre della Libertà che da 45 anni fa da cornice ai grandi eventi e alle grandi manifestazioni iraniane e che è diventata per molti iraniani  simbolo di identità nazionale.

 

La Azadi Tower (a sinistra con Amanat in primo piano) è ritratta in infinite fotografie delle proteste del Movimento verde nel 2009-2010 contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, accusato di brogli. Proteste represse nella violenza degli uomini del Basij, la forza paramilitare iraniana agli ordini dei Pasdaran. In quell'occasione, Amanat parlò di un evento “memorabile”, di cui la sua torre fu testimone, un evento accolto al tempo dagli iraniani in esilio come un segnale che il cambiamento fosse possibile, che la contro-rivoluzione fosse realizzabile. L'Iran che manca all'architetto Amanat è quello il cui popolo è consapevole che “se vivesse libero potrebbe creare grandi capolavori”. Perché “la forza del popolo iraniano è così grande che, nonostante la repressione del regime, esiste un progresso sotterraneo che si sviluppa e cresce”. La cultura iraniana, dice Amanat, è in continuo movimento ed è mutevole. È un progresso fatto di uomini che vogliono riscoprire la storia pre-islamica del loro paese, alla ricerca del capo di quel filo che il regime vuole spezzare tra Persia e Iran. Gli ayatollah preferiscono negare la storia pre-islamica, ma è impossibile non guardare a quel periodo per comprendere la storia attuale. “È come il corso della vita di un uomo. È sempre la stessa persona di quando era bambino, ma negli anni è cresciuto ed è stato educato per diventare l'uomo che è”.

 

La teocrazia iraniana è riuscita a reprimere il suo popolo e a ricacciare ogni forma di influenza proveniente dall’occidente o dal recente passato imperiale. Dopo il 1979 il regime khomeinista ha fatto man bassa di tutte le ricchezze della famiglia regnante e di tutte le opere artistiche. È il caso, ad esempio, della collezione conservata al Museo d'arte contemporanea di Teheran e voluta a metà degli anni Settanta dall'imperatrice Farah Diba Pahlavi. Questa collezione, forse una delle più importanti al di fuori dei confini europei e statunitensi, ha un valore stimato tra i 2,5 ed i 3 miliardi di dollari, e raccoglie opere di Gaughin, Pollock, Monet, Warhol, Pomodoro e molti altri. Quadri che non contengono nudi ma che ciononostante sono tenuti ben lontani dagli occhi degli iraniani e dei turisti. Un collezione raccontata da Bloomberg nel novembre scorso e che ha trascorso quasi vent'anni al buio dei sotterranei del museo. Mentre il regime khomeinista respingeva ogni influenza occidentale, ne conservava le opere per il loro immenso valore economico. Di altri reperti artistici, al contrario, veniva fatta bella mostra. Come nel caso della Fontana del sangue che sorgeva nel più grande cimitero iraniano, quello di Behesht-e Zahra a sud di Teheran, nei primi anni della conflitto Iran-Iraq degli anni Ottanta. “Acqua colorata, in realtà, ma spaventosamente realistica”, la descriveva John Kifner, corrispondente del New York Times. Era espressione di simbolismo e propaganda, della celebrazione del martirio e di quella rivoluzione definita “benedizione divina” da Khomeini.

 

[**Video_box_2**]Ma quando parla di Iran l'architetto Amanat sente l'obbligo morale di affrontare la questione dei diritti umani, una delle note dolenti nella recente visita di Rohani in Italia, forse più per il governo di Roma che per il presidente iraniano. Una copia di quella “prima carta dei diritti umani” di Ciro il Grande è oggi conservata nella Torre della Libertà, mentre l'originale è custodita al British Museum di Londra. Quello stesso cilindro è stato più volte strumentalizzato e usato dai moderni leader iraniani nelle discussioni sui diritti umani. Devoto all'imperatore persiano era ad esempio Ahmadinejad che alla Columbia University dichiarò che in Iran non esistevano omosessuali mentre, in realtà, gli ayatollah continuavano a spedirne nelle carceri o al patibolo. “Sono solo false pretese, non c'è verità”, ammonisce Amanat. “Continuano a imprigionare e a uccidere le persone per ciò che sono e per ciò che pensano. Parlano di Ciro il Grande e lo celebrano, ma senza seguire quel Cilindro. In Iran c'è un grosso problema che va affrontato, anche con il dialogo”.