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Attacco a Giacarta. Perché è un disastro se finisce “l'immunità islamista” in Indonesia

Giulia Pompili

Una fonte del governo ci spiega che i gruppi territoriali non agiscono così, ma non crede allo Stato islamico.

Roma. Giovedì mattina alle 10 e 50 un attentatore si è fatto esplodere in uno Starbucks su via Thamrin, che è nel quartiere degli affari della capitale indonesiana Giacarta. Dopo qualche minuto, altri due ordigni sono esplosi (uno era addosso a un secondo attentatore) e hanno ucciso due persone, un canadese e un indonesiano. Nel frattempo altri tre attentatori lanciavano granate e sparavano sui passanti. La polizia è arrivata, li ha uccisi e messo in sicurezza la zona in mezz’ora. Lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco, ma una fonte del governo indonesiano, contattata dal Foglio, dice che la rivendicazione non è ancora considerata autentica e che le autorità sono sorprese: “Negli ultimi due anni la situazione è stata tranquilla”, grazie all’attività di antiterrorismo della polizia, “ci sono stati piccoli incidenti e falsi allarmi. Per ora, possiamo dire che i terroristi sembrano di nazionalità indonesiana, anche se per i due che si sono fatti esplodere è ancora difficile confermarlo”.

 

L’Indonesia è stata spesso indicata come paese simbolo di democrazia e di un islam secolarizzato tra quelli del sud est asiatico. Non è facile, con una popolazione totale di quasi 250 milioni di persone, di cui 206 musulmani. Pur essendo una regione a tradizione sunnita, per avere un’idea di quanto tra la popolazione sia poco sentita un’identificazione nella guerra interna all’islam, un sondaggio di Pew Research del 2012 (con dati piuttosto stabili per l’Indonesia) mostra che il 56 per cento dei musulmani indonesiani si dichiara né sunnita né sciita, ma “soltanto musulmano”.

 

Eppure nell’agosto 2014 un video da Raqqa ha iniziato a circolare sui canali ufficiali del califfato: sei indonesiani con i vessilli dell’Is incoraggiano gli altri musulmani d’Indonesia a unirsi a loro. In un articolo titolato “Perché così pochi indonesiani aderiscono allo Stato Islamico?” del 3 gennaio scorso, Edward Delman scriveva sull’Atlantic: “Un report del Soufan Group sui foreign fighters in Iraq e Siria (non necessariamente combattenti dell’Is) citava una stima del governo indonesiano che dava 700 combattenti dall’Indonesia in Siria e Iraq – un numero che secondo Soufan era probabilmente un’esagerazione”. Ernie Bower della divisione del sudest asiatico del Center for Strategic and International studies scrive che i foreign fighters indonesiani a oggi sono un quarto di quelli che partono dai principali paesi europei, tenuto conto della proporzione tra le popolazioni. Ma dopo il video dell’agosto del 2014 – timing perfetto, visto che il mandato dell’attuale presidente indonesiano Joko Widodo, giovane e con pochi legami con l’establishment, è iniziato a ottobre 2014 – ci sono state manifestazioni di appoggio allo Stato islamico a Giacarta, a Solo (zona centrale di Giava), e a Bima (Nusa Tenggara occidentale). E sempre nell’estate del 2014 Abu Bakr Bashir, capo spirituale del gruppo terroristico Jemaah Islamiyah, ha appoggiato la guerra dell’Is contro l’occidente ma non ha giurato fedeltà al Califfato. Il governo non lascia correre. La polizia indonesiana arresta di continuo persone ritenute vicine al terrorismo (la pena è la condanna a morte per fucilazione), molti leader spirituali si attivano facendo propaganda  per una “giusta comprensione dell’islam” e contro lo Stato islamico (l’ultimo a farlo, A. Mustofa Bisri, è leader del gruppo Nahdlatul Ulama, che ha 50 milioni di membri). 

 

Come per il Bangladesh, anche l’Indonesia ha un tipo di estremismo islamico che cerca l’appoggio di organizzazioni terroristiche internazionali, e un altro più legato al territorio. Il gruppo Fronte dei difensori dell’islam, nato nel 1998 per opera di Muhammad Rizieq Shihab, pur sostenendo la guerra di al Qaida e dello Stato islamico non ha mai giurato fedeltà al califfo. Il Fronte preferisce giocare in casa, in passato ha colpito l’ambasciata americana, luoghi di intrattenimento (il gruppo diventò celebre per essere riuscito a cancellare il concerto di Lady Gaga nel 2012 per motivi di sicurezza) e non sono poche le denunce per atti intimidatori nei confronti dei gruppi cattolici e protestanti indonesiani – i cristiani in Indonesia sono 23 milioni, il secondo gruppo religioso del paese. Dice la fonte del governo indonesiano al Foglio: “Il Fronte non opera in questo modo. Difficile pensare che l’attacco sia opera loro. Allo stesso modo, anche le cellule degli altri gruppi estremisti legati al territorio sono state sistematicamente smantellate. Per ora si possono solo fare speculazioni, il resto lo dirà la polizia dopo l’indagine”.

 

[**Video_box_2**]La prima ondata di attacchi terroristici di stampo internazionale, in Indonesia, seguirono le azioni militari americane provocate dall’11 settembre. Il 12 ottobre del 2002 nella turistica isola di Bali un attacco coordinato fece 202 morti (tra cui un italiano), la maggior parte davanti a un locale notturno.  Il 5 agosto del 2003 l’esplosione di un’auto bomba davanti al Marriot Hotel di Jakarta fece dodici morti e 150 feriti. Poi ci furono i nove morti davanti all’ambasciata australiana nel 2004, i venti morti di nuovo a Bali, l’anno successivo. L’attentato di ieri ricorda l’ultimo con dei morti avvenuto nella capitale, il 17 luglio del 2009, quando una serie di esplosioni e uomini armati hanno ucciso sette civili e due terroristi.
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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.