Un'auto della polizia in una piazza di Colonia

La falsa coscienza europea in atto dopo Colonia

Daniele Scalea
Malgrado l'affastellarsi di nuovi dettagli che aggravano il già inquietante quadro dipinto (tardivamente) dai media alcuni giorni fa, sono ancora molti coloro che cercano di sminuire quanto accaduto a Colonia. In Europa, affermano, non sono certo una novità i reati di tipo sessuale.
Malgrado l'affastellarsi di nuovi dettagli che aggravano il già inquietante quadro dipinto (tardivamente) dai media alcuni giorni fa, sono ancora molti coloro che cercano di sminuire quanto accaduto a Colonia. In Europa, affermano, non sono certo una novità i reati di tipo sessuale: tanto banale da essere vero, ma tanto fuorviante da non accorgersi che la gravità di quanto accaduto sta nel numero. Quando in Europa così tante persone culturalmente omogenee, in così breve spazio e tempo, hanno compiuto così tanti crimini sessuali contro così tante vittime di cultura differente? Bisognerebbe risalire alla Seconda Guerra Mondiale per trovare casi siffatti. Ma lo sdegno degli apologeti di Colonia monta quando devono negare qualsiasi attribuzione dei misfatti a immigrati o musulmani. Il fatto che dei mille colpevoli e complici pressoché tutti appartenessero a queste categorie, ci spiegano, non autorizza a “generalizzare”. Salvo, però, gettare poi la colpa su una categoria ancor più generale e generica, quella dei “maschi”: tutti stupratori e femminicidi fino a prova a contraria.

 

La superiorità morale dei ben pensanti tocca il suo apice, tuttavia, quando ammoniscono che  non si può valutare differentemente un reato a seconda che chi lo compia sia un cittadino o un immigrato. Da un punto di vista giuridico hanno perfettamente ragione, ma il pensare politico non dovrebbe fluire solo nell'alveo artificiale del diritto, bensì interrogarsi sulle questioni sociali, culturali ed etiche connesse ai misfatti di Colonia. Loro stessi lo fanno, in chiave politically correct, quando si lanciano in raffinati attacchi contro la “cultura tedesca dello stupro” o i “branchi maschili” europei.

 

E' sempre colpa nostra, è sempre ora dell'autocritica, per la nuova “falsa coscienza” dell'élite europea. L'immigrazione da noi non è certo esente da critiche, spesso ingenerose e xenofobe, ma tali proprio perché relegate al di fuori del discorso consentito dalla cultura egemone. Ci sono nella cultura europea contemporanea alcuni shibboleth che denotano immediatamente se un'opinione sia da considerarsi legittima o meno: la visione del migrante come ontologicamente buono è uno di questi.

 

Ciò denota anche la difficoltà dell'Europa d'oggi di pensare in termini di meriti, individuali o collettivi, acquisiti o da acquisire. Il migrante che giunga in Europa, prima ancora di dimostrare d'avere diritto all'asilo o a forme di protezione, secondo una certa cultura deve godere immediatamente d'ogni diritto che spetta al cittadino. Prima della sveglia dataci dai Francesi con Ventimiglia, in Italia era tabù persino la distinzione tra migrante economico e profugo: era diritto di chiunque, diceva il “senso comune” dei giornalisti e professori universitari, venire a vivere in Italia senza nulla dare o dimostrare.

 

Non tutti i diritti, tuttavia, sono assoluti e congeniti. Ci sono diritti che provengono da un merito individuale o da uno collettivo trasmesso per via ereditaria. La residenza e la cittadinanza in un paese europeo non sono (ancora) riconosciute come diritti congeniti a tutti gli abitanti della Terra. Sostenendo il contrario si nega non solo quel merito collettivo trasmesso per educazione ai discendenti delle passate generazioni d'italiani, ma anche il merito individuale dei tanti immigrati che hanno saputo integrarsi nella società ospite.

 

[**Video_box_2**]Tali discorsi suonano però stonati nel concerto del pensiero egemone in Europa: non solo perché violano lo shibboleth di cui sopra, ma anche poiché il merito si lega al soddisfacimento di doveri, laddove la nostra società non riesce più a pensare se non in chiave di diritti (all'accoglienza indiscriminata, alla cittadinanza per ius soli, a riformare istituti sociali tradizionali come la famiglia e il matrimonio per adattarli a stili di vita “innovativi”). Fateci caso: ormai non si parla nemmeno più di “ospitalità” o di “integrazione”, ma solo di “accoglienza” e “multiculturalismo”. Perché l'ospite dovrebbe comunque rispetto a un padrone di casa, e l'integrazione richiederebbe di essere accettati dalla società. Nell'ideologia dell'accoglienza, invece, chiunque entri in Europa dovrebbe aver diritto a occuparne una porzione di territorio senza chiedere nulla a nessuno né adattare il proprio comportamento.

 

In tal modo una società cessa di essere tale per divenire un semplice assembramento, di individui atomizzati (come gli europei) o di comunità ri-tribalizzate (quelle che generalmente si formano in presenza di elevate densità di immigrazione omogenea), tenute assieme non più da un vincolo di sangue, cuore o pensiero, bensì dalla mera forza di uno Stato e di una legge che tutti sentono sempre meno come legittimi e rappresentativi. Uno stato fragile destinato irrimediabilmente a perdere il controllo delle sue banlieues e delle sue Molenbeek, fino al disfacimento totale. Quando ciò avverrà, diranno i ben pensanti che è stata tutta colpa nostra. E allora, solo allora, avranno finalmente avuto ragione.

 

Daniele Scalea è Direttore Generale dell'IsAG - Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie